Wednesday, November 28, 2007

Quell'anima inquieta


Mad, oggi.
Non ci siamo mai persi, in questo frattempo. Quando ha letto il mio ultimo post mi ha confessato che per lei è stato come un salto nel tempo. Siamo forse molto distanti da quelle versioni di noi due bambini, ma neanche poi tanto.
Le ho chiesto come avrebbe voluto che definissi i suoi ultimi tentativi di evasione verso quel mare, e mi ha chiesto di dire che negli ultimi dieci anni ha teso spesso l'elastico verso quell'infinito, che l'orizzonte ci ha suggerito sempre. Ha viaggiato, vissuto in posti lontani, ed è sempre tornata a casa diversa, e più che mai se stessa.
Pur avendo, forse, raggiunto quell'immagine di se che desiderava diventare allora, in un suo altrove privato, ammette di non aver ancora sciolto vecchi fardelli adolescenziali. Forse ci ritroviamo in quella macchina, chiudendo gli occhi, nelle nostre emozioni. Per quanto improbabili le nostre direzioni siano state.
Facciamo ancora il gioco di scambiarci musica indie. Ma, figli del nostro tempo, oggi lo facciamo attraversi msn.
Mad, ogni bene, e per sempre buon viaggio.


Saturday, November 17, 2007

Barattoli e suole

Dieci anni andavo a vedere il tramonto. Guidavo la macchina di mia madre, dentro la quale mi era stato categoricamente proibito di fumare. Io facevo finta di dimenticarmelo, così passavo a prendere la mia amica Maddalena, la mia compagna di banco, e la portavo al mare. Appena lei entrava in macchina accendeva due sigarette, di seguito; una per lei e l’altra per me. Sapeva, senza che glielo dovessi ricordare, che doveva abbassare il finestrino. Aveva sempre un po’ di musica sconosciuta, che non si sentiva per radio o per tv. Diceva che gliela spacciava il cugino. Un cugino che io devo aver visto un paio di volte, ma di cui non ricordo nemmeno il nome. Era musica indie, si diceva. Così ascoltavamo la cassetta infilata nell’autoradio. Quando una musica non ci piaceva tanto abbassavamo il volume, e coprivamo l’aria di chiacchiere. Era l’ultimo anno del liceo, e figurarsi se non avevamo qualcosa di cui parlare. Le opinioni che esprimevamo erano il primo segno che potevamo definirci persone adulte, con delle idee. Eravamo forse un filo troppo cinici. Ma le opinioni migliori erano proprio quelle sarcastiche, ingrate, di sicuro successo.
Ma quando una musica ci piaceva, beh allora stavamo in religioso silenzio. Ci occupavamo solo di soffiare il fumo delle sigarette, già troppe, fuori dal finestrino.
Sono cresciuto in un posto dove, se sei fortunato e guidi svelto dopo i compiti, puoi vedere il sole che si tuffa sul mare. Io e Mad guardavamo il mare. Sicuri che dietro quel sole ci fosse un contorno di terra, prima o poi. Se cresci dove sono cresciuto io l’orizzonte lo vedi davvero, e il cielo ti chiude da parte a parte, come una campana, come un bicchiere che ti si rovescia sopra. Ricordo che lei sperava di fuggire, di andarsene da casa, perché dei genitori non ne poteva più. Mad aveva i capelli arruffati, e portava gioielli etnici eccentrici. Era la mia bellissima anima inquieta, seduta accanto. Io ero quel che ero, anche se non lo sapevo. Avevo perso quello che avrei definito in seguito: il mio più grande amore. Il mio amore che aveva preso un aereo ed era scappato da tutto. Un uomo che negli anni avrei inseguito, ripreso e poi perso. Un uomo che si è perfino sposato con un altro uomo.
L’uomo del cuore, che oggi amo come un fratello. Ma allora, seduto al volante della macchina di mia madre, con di fianco Mad, ignoravo ogni cosa. Era l’orizzonte a rapire il mio sguardo. Speravo solo di avere abbastanza vento nelle suole per poter inseguire quel che potevo solo immaginare.
Non passò molto che lasciai l’isola, arrivando da qualche altra parte. Mi lasciai Maddalena alle spalle, che mi salutò sperano che almeno io riuscissi ad avverare almeno la metà delle nostre promesse, del nostro coraggio chiuso in barattoli di vetro. Quei barattoli spesso mi sono serviti.

Ieri ho ascoltato una canzone di Ani di Franco. Una di quelle canzoni che fecero tacere me e Mad per un bel po’. Una canzone da tramonto sul mare. Una canzone che non ricordavo.
Penso solo che i miei orizzonti sono sempre lontani abbastanza per promettermi coraggio. E questo mi basta per sapere che quegli anni sono stati una delle migliori lezioni possibili.

Tuesday, November 06, 2007

NOV zerocinque

Il portone me lo chiudo alle spalle. La strada oltre il portico è umida. La notte fonda si è versata sulla mia città come pioggia. La festa e i suoi rumori fumano dalle finestre in alto. Lancio i miei occhi verso le luci, e mentre qualcuno ride, versando forse del vino in qualche bicchiere, io decido che è ora di andare davvero.

- Non mi dici neanche una parola? – era quello il sorriso che mi aveva legato le mani alla lingua. Stava in piedi, resistendo agli imbarazzi; spalmava le righe della sua maglietta attorno al mio silenzio, talmente solenne da vergognarmene. Era esattamente quello. Righe della tv quando torni a casa, quando nessuna trasmissione ti tiene sveglio fino all’alba.
- Come mai sei qua?
- Ma non avevi smesso di fumare?

Scivolato dentro quel piccolo appartamento, assieme agli altri, non riconobbi nessuna faccia. Sembrava un quadrato tagliato dal mio solito mondo, l’approdo casuale dell’avventura di un viaggio. I bicchieri rovesciavano la luce sul pavimento di linoleum, rigato da chissà quanti anni di scarpe da ginnastica. Alcune ragazze quasi nude e infreddolite, si stringevano sul divano, coccolando le loro minuscole borsette griffate. Il resto della bolgia immergeva le ore del sabato fino al fondo delle bottiglie sul tavolo dei liquori. Le anime della festa erano come previsto i padroni di casa. Immaginavo un compleanno, un ultimo esame da festeggiare. Strinsi mani, e finsi di ricordarmi di qualcuno. Le sedie Ikea coperte di cappotti leggeri. Non sembrava neppure autunno.
Suonava un disco dei Perl jem.
Le altre anime, quelle sconosciute, appoggiavano la schiena al muro, colorato di un rosso eccentrico. Ero entrato dentro il cuore di un segreto, morbido come bolle d’uva spremuta nei pugni. E lo vidi quasi subito, rollare del tabacco steso sulle solite cartine stropicciate. Come stropicciati i miei occhi sorpresi. Il bicchiere di vino non era nelle mie mani per caso, ma perché lo potessi appoggiare alle labbra, abbassando il volume dei nostri ciao. Mi pareva urlassimo sopra ogni altro rumore.
Quattro mesi dalla fine. Dal risveglio di quel fondo marino che era lui, per me.
E il film muto dalla pellicola masticata, che venne dopo, non mi aveva divertito. Ora, lì, sorrideva come il dente più bianco di quel muro da bocca rossa.
Aspettò il giusto perché io quasi sperassi di salvarmi. Rimasi accanto ai miei amici tutto il tempo. Convincendomi perfino che fare amicizia con persone di cui non mi sarei ricordato il volto e il nome, lo avrebbe fatto arrendere. Ma la sua attenzione, attraverso la festa nel mezzo, pulsava assieme ai semafori gialli fuori dal cuore ormai ubriaco. Sapevo che mi avrebbe chiuso all’angolo, prima che la festa finisse.

- Ma stiamo parlando di che cosa, scusa?
- Non lo so, ma ricordo che dicevi che con le sigarette avresti smesso.
- Beh, ho provato ma è durata poco.
Gli occhi di mosto di oliva, verde trasudava dalle sue ciglia. Ungeva le prese delle mie armi di difesa, tirate fuori all’ultimo dalle mie tasche, e imbracciate con la convinzione allevata del frattempo.
- Come stai?
- Bene, dai! Tu piuttosto? Lavori sempre per quel giornale?
Ricordava quel che gli avevo detto di me. Una cartolina con l’indirizzo sbagliato. E quante lettere invece avevo scritto nella mia testa. Bianche le buste, mai spedite, mai chiuse perché fossero un dono.
Feci cenno di sì, guardando oltre le sue spalle, contro una porta chiusa.
- Ti va se entriamo qua dentro? Questi urlano troppo, non riesco a sentirti, vieni. Provo a bussare.
Le mie dieci parole dieci le aveva sentite tutte. Non credevo che ne avrebbe avuto altre. Pensavo bastassero.

Aperta la porta, ci ritrovammo nel buio più pesto. Lo stesso buio delle nostre notti estive, senza coperte. Senza vestiti. Le nostre notti a casa mia, con le finestre aperte come gli occhi dei gatti. E le bocche cucite dai baci.
Mi sentii stretto in gola.
- Deve essere la stanza di uno di quelli che vive qui!
- Non lo so, non vedo nulla.- ma sentivo ogni cosa. Sentivo benissimo il rumore delle sue dita, schiacciare il bicchiere di plastica. Il fiato dei suo sorriso divertito.
- Ti ho pensato sai?
- Non posso saperlo, no; e come io non ho smesso di fumare, tu non hai smesso di credere che la gente ti capisca.
Rise, mentre qualcuno dalla festa mi chiamava.
E prima che la mia mano arrivasse alla maniglia, lui la rubò alla mia volontà, poggiandola sul suo petto. Chiusi gli occhi, stringendo il mio respiro perché non mi tradisse.
- Stai qui- mi disse all’orecchio.
La sua barba di due giorni, sulla mia pelle rossa delle guance. La sua lingua sulle mie labbra, che chiedeva permesso. L’aria della sua bocca volò dentro la mia gola, e scivolò assieme all’abitudine nei mie polmoni. Baciai l’uomo dei sogni da dimenticare, dopo quattro mesi di sonno delle nostre voci. Dentro la stanza di qualcuno che neanche sapessi chi fosse.
“Disordine al rigore” grida la scritta anarchica sul muro del ponte della stazione.
Pensai che fosse una cazzata estrema, che non dicesse nulla di sensato, quando la lessi una sera, guidando la mia bici verso casa.
Lo lasciai al buio, in silenzio chiesi scusa, e uscii. La porta socchiusa mentre avvisavo gli altri che sarei andato via, subito.

Mentre le strade mi parlano vado verso l’autobus notturno. Il cappotto allacciato fin sul collo e le adidas bagnate, come l’orlo dei jeans troppo lunghi per me.
La signora dei fiori attraversa la strada con me. Mi guarda appena un attimo, prima che il semaforo di via Ugo Bassi ci lasci alle nostre strade. Ha l’impermeabile giallo, e il vestito di merletti bianchi. Non mi serve guardare dentro il suo cestino, per sapere che sta vendendo margherite.
Il fiore del dubbio d’amore, che serve per tenere il segno dei libri di poesie.
I forse mi lasciano come alla mia città è concessa la breve tregua dei temporali.
Appena salgo sull’autobus, abbasso il finestrino. Sto in piedi e respiro. L’ossigeno di chi riemerge dai fondi marini troppo profondi, che se allunghi le braccia non arrivi al pelo dell’acqua. Che se ti perdessi, per distrazione, nessuno potrebbe sapere dove sei.
Mentre le strade mi insegnano l’amore, io scivolo verso casa, tenendomi stretto a loro.