Thursday, December 21, 2006

Letterina a Babbo Natale "BIS".

Hey Babbo
Ma come? Non l’hai ricevuta la mia letterina ad agosto? Certo che sì! Non ci credo che non sai chi sono. Dai, Babbo… ti ricordi quando ero cicciotello con l’apparecchio ai denti, con tutti quei capelli arruffati? Beh sono ancora io, sai? Capisco non sembri, ma fidati! Ora, ti avevo chiesto un fidanzato come regalo, con largo anticipo rispetto a tutti quei luridi mocciosetti egoisti di mezzo mondo ( perché i bimbi dell’altra metà di mondo o non sanno chi tu sia, o sono troppo impegnati a non morire). E tu che hai fatto? Me lo hai fatto arrivare… in un bel pacco argentato alto un metro e settanta, gonfio gonfio e stretto in vita da quel bellissimo nastro rosso… una caramellona insomma! Sai Babbo, volevo dirti che hai fatto un ottimo lavoro. Il fidanzato è davvero come lo volevo, proprio così. Sa cucinare, non mi rompe le scatole se ho un calzino bucato, mi coccola se ho freddo e mi sbaciucchia finchè una qualunque preoccupazione non mi passa! Poi ci hai messo del tuo credo! Perché immagino sia merito tuo se sa fare massaggi come una delle migliori sbarbe orientali; così come sulla questione della generosità e della premura che riserva per me, sempre. Oh Babbo… mi sa che il moroso gay è l’articolo che fabbrichi meglio… questo mettilo nello sponsor pieghevole illustrativo!
Però, cazzarola Babbo…. La mia lettera comprendeva un bel “piesse”. Te lo ricordi?
Diceva: e poi Babbo, fai per favore che quest’anno non mi tocchi pagare le spese condominiali. Cos’è questo bollettino qua sotto il mio naso, Babbo? Eh? Me lo spieghi?
Le letterine si leggono fino alla fine. Ho capito che hai fretta di finire, e l’affanno di sbrigarti… ma io ti scrivo ad agosto apposta!
Comunque ti perdono… sei stato un grande a sto giro! Hai sentito di questa ondata di gelo in arrivo! Fai a modo e copriti. Che non sei più un giovincello.
E Buon Natale.

Come Buon Natale a tutti i miei lettori…
Su, venite qua, e diamoci un bell’abbraccio!

Monday, December 18, 2006

Incipit

The nun's bride


Spalle al muro, nuda. Mi guarda come non riuscisse a respirare o temesse il peggio. La luce del bagno, pallida e anonima al neon, la segna impietosa nel poco peso che vanta, e nei solchi dei suoi propri abusi. Le chiedo che pensa di fare, mi risponde che starà lì finchè la guerra non sarà finita. Le chiedo se ha voglia di dormire e mi dice che non potrebbe mai.
Ha la bocca socchiusa, e gli occhi non sono più i suoi. Si è persa, seguendo un coniglio attraverso porte sempre più strette. Ha creduto alle promesse, e si è tagliata i capelli corti. Gennaio pulsa come una strobo alla finestra, e le luci di questa città ci scivolano affianco, appena per poter riuscire ancora una volta a dare un nome al mondo.
Io sono la donna che l'ha salvata, e lei è la donna che mi porterà all'inferno. Mi dirà che quella è casa sua, e io disferò le valigie.
Io sarò florida come una sposa. Lei si drogherà ancora, e decideremo volta per volta chi potrà essere. Se il mio uomo, o la mia bambina da curare. Da piccola, sognavo di avere le trecce e un cavallo nel giardino. Oggi scavo la nuda terra; sbuccio la pelle di chi incontro per sapere se esiste ancora un qualcosa capace di uccidermi.
E lei è davanti al cesso, sporca come un gatto bastardo del vicolo quaggiù. Non so di che si è fatta, ma si sta consumando. I suoi contorni sono già più incerti. Mi ha confessato che avrebbe voluto farsi suora qualche tempo fa. Ha avuto la peste, la povertà che l'ha soprafatta. Non ha avuto la clemenza dei cieli, né il perdono.
Vorrei che morisse adesso, qua, in questo bagno gelido. Mentre la guardo. Sarei io l'unica testimone del suo passaggio.

Magari

Perché esce dalla pancia. Come la voglia di stringere nel palmo una qualunque maniglia, e tenerla ferma, perché nessuno entri. La sera qualcuno raccoglie i passi che portano fino a casa mia, e io allora tengo le finestre aperte, imparassimo mai a volare. Cosa rimane? Cosa ascolti quando poggi l'orecchio al muro? Non ti senti mai come se qualcuno infilasse la mano nella sabbia asciutta e afferrasse qualcosa di tuo, che magari ti è dentro?
E chi dice che i pazzi che parlano fra loro non siano meglio dei talkshow in tv?
Perché questo paese lo abbandoneremo tutti prima o poi, e lasceremo le case vuote e i rubinetti aperti. Cupole sommerse nei loro stessi cilici di pregiudizio. E noi? Beh nuoteremo, my little prince… in qualche altrove che ci consoli; che forse saremo in grado di inventare oltre le nostre stesse aspettative. Dove andremo al cinema, e magari mi terrai la mano.
E tu allungherai i caffè, e io fumerò svelto le mie paglie fino al filtro. E attorno avremo altri squot che si allacciano le allstar bucate, e i nostri tappeti lisi saranno il mondo che avremo conquistato. E il sabato ci abbracceremo in un qualunque mercato delle pulci. Tu cercherai qualche vecchio film in cassetta, e io magari un vinile che non suonerò mai.
E le coperte saranno sempre troppo corte per tenere i piedi al caldo, ma sarà pur sempre un nuovo mondo, con le orme dei nostri percorsi ben tracciate. Nessuno ce le ruberà. E le porte non avranno maniglie, e tutto quello che avremo ci sembrerà anche troppo.

Monday, December 11, 2006

Shhh!

Il letto al buio della notte. E attorno era solo silenzio. Alessandro si raggomitolava sotto la coperta di piume, e Luca gli si era steso accanto. Solo le luci di natale rimbalzavano dall’angolo, per i muri bianchi, senza dare fastidio.
I corpi pesanti e nudi, con i fiati della passione ancora appesi alle labbra. Entrambi aspettavano il sonno, che li facesse scivolare nell’attesa sospesa del giorno che si sente arrivare.
Un bacio sfiorato, la loro buonanotte muta.
E spalle su cui poggiare il mento, chiusi a cucchiaio l’uno sull’altro.
La barba sul collo, morbido solletico al quale ci si abitua, e il braccio di Luca sul fianco di Alessandro. Perché in una notte così non si può avere freddo, e neppure paura. Perché il tempo e le dispute, le distanze e il desiderio, hanno congiunto a ciascuna domanda la propria risposta.

Una bocca che si poggia sull’orecchio dell’altro.
Alessandro fece finta di dormire, e non disse nulla dandogli le spalle. Nessuna parola, nessuno sguardo avrebbe restituito il giusto, l’esatta metà della parte intera. E le ciglia chiuse si bagnarono in un attimo. Che parve immobile come i loro corpi. L’uno sull’altro.

(Non avrei mai potuto non scriverla, e non scriverla così. Poche cose, credo, meritano l’urgenza di essere raccontate. E io ne ho appena vissuto una)

Shortbus

Sapete che non ricordo più neppure quando lo sono andato a vedere? Era la settimana scorsa e non sono riuscito a scrivere nulla per giorni. E il perché credo risieda nell’incapacità di distanziarmene in maniera lucida. Sì, sono uno di quelli che ne sono rimasti folgorati. Letteralmente.
Mi hanno chiesto di definirlo. Mi rendo conto io per primo che è una vera impresa. Dopo aver letto così tanto su questa pellicola, anche io avevo voglia di una mia opinione. E mi è servito del tempo.
Inizia con una riproduzione in plastico digitale di NYC, dentro il quale la camera ti fa vorticosamente scivolare. Una città che si risveglia lentamente dallo shock di aerei piovuto dal cielo; una città anche lontana dai serial glam modaioli, o dalle sparatorie a intrighi scopiettanti. Una città dove qualcuno dice che ci abiti anche gente normale. Poi il sesso, che non viene solo mimato in maniera ridicola. Finalmente nessun lenzuolo tirato ad arte sul seno delle donne, e cerotti inguinali per gli uomini. Qua il sesso si vede davvero. E perché non dovrebbe essere così? Non ho mai avuto la sensazione che fosse piazzato ad arte in maniera gratuita. Non era porno, non provoca nessun livello di eccitazione. È sesso, e lo conosciamo tutti.
Amo John Cameron Mitchell dai tempi di Hedwig, quel maledetto capolavoro. Allora mi ricordava la furia di una primissima adolescente Juliette Lewis, bellissima in una produzione da Tribeca fest. Una confezione perfetta per un oggetto altrettanto ben fatto. E con questo film mi convince sul suo incredibile talento, anche solo da regista e sceneggiatore, nel mettere in discussione molto della vita di chiunque guardi i suoi lavori.
Shortbus parla della paura; di quel coraggio che manca nell’essere individualmente perfetti. E tutti i personaggi spendono energie per adeguarsi a un modello. Così appare normale che una coppia gay monogama debba prima o poi aprire i propri argini, o normale che una ragazza che patisce una forte solitudine debba diventare una borderline per salvarsi. Così altrettanto normale che una donna creduta frigida, perda l’equilibrio per ottenere quello che hanno tutte le altre donne: un normalissimo orgasmo.
Fin qua non ci sarebbe molto di geniale. Ma ecco che nel corso della storia affiorano delle domande. Chi l’ha detto che comunque l’amore è solo a due? E se ci capitasse una contingenza che ci aprisse nuovi accessi? E ci piacesse più di quanto pensassimo mai? Se non avessi mo più orgasmi, dovremmo confinare noi stessi in un angolo del mondo? E se uno di noi davvero desiderasse una casa e un cane e un lavoro comunissimo? Anche quello sarebbe un contraddistinguersi.
Ho letto di come cast e regista abbiano fatto moltissimi workshop prima delle riprese. E di come abbiano scritto la sceneggiatura su quello che emergeva dalle improvvisazioni, dalla vera vita di chi abbia partecipato a questo film. Perché in mezzo a tutti gli scandali, a censure e preclusioni, si perde di vista un concetto semplice. Shortbus parla di una realtà che qualunque uomo o donna, superati i vent’anni, conosce o ha iniziato a conoscere. E sapete una cosa? È comico e intenso in egual misura.
Poi la musica…. Ah! Altro ingrediente graditissimo. Grazie a questo film ho conosciuto Jay Brannan. Il bel ragazzetto con la chitarra. Sono entrato nel suo blog di myspace e ho scoperto che sta per incidere il suo primo disco. Ha molto talento… e non parlo (solo) delle sue dimensioni esibite così, a sbertucciare il pubblico maschile. Poi stamattina mi sono “procurato” l’official soundtrack, e non trovo davvero nessuna scelta fuori luogo. Dai the Ark (redivivi), a Scott Mattews, frontman della band dello shortbus, e autore inoltre di quel bellissimo pezzo cantato da Justin Bond nel bel mezzo del Blackout: “The end”.
Oh insomma…
Totally impressed!

Wednesday, December 06, 2006

E lei fra noi

E io che speravo che saremmo diventati unici, diversi da tutti gli altri. Ci si conosce, ci si stupisce, ci si affeziona. Si dorme più spesso insieme, da uno o dall’altro, subito dopo il lavoro, si mangia qualcosa, ci si stuzzica sempre, ci si dimentica qualcosa in casa dell’altro e non ci si pensa, né ci si preoccupa. Qualcosa che si fonde in un’altra.
A dirla così ci vuol poco, però sembra bello. Come dovrebbe essere!
Però mai avrei pensato che nella mia vita serafica e paffuta con Luca, sarebbe arrivata lei.

Bella è bella, o quanto meno fatta bene.
Mio fratello ha perso la testa per lei anni fa ormai. Una notte di natale, mentre io, sbronzo come poche volte, rendevo quasi l’anima al cielo, il consangue la titillava accuratamente, tutto sudato, emettendo versi lussuriosi. Mi parve un’allucinazione da nocciole e datteri. Ma fu così che andò! Mi fece paura e le dissi che non mi avrebbe mai avuto. Altre volte, in circostanze successive, qualche altro uomo mi ha confessato di averla amata fino alla psicosi, di aver perso quasi tutto per il piacere di starle accanto. Confermai così l’idea che di lei non ci si dovrebbe fidare, che sarebbe meglio tenerla alla larga.
Ieri Polpetta l’ha portata con se. È passato a prenderla dopo il lavoro e l’ha scortata fino al mio appartamento. Quando l’ho vista ho tremato, e ho pensato davvero che fosse troppo tardi per tirarmi indietro. Dopo un breve momento di scoramento, Luca mi ha consolato, dicendomi che non c’era alcun motivo per preoccuparsi.
Dopo il caffè eravamo tutti e tre seduti sul tappeto a righe del mio soggiorno. Lei zitta e immobile mi faceva venire i brividi.
- Allora, che si fa? Ti va di provare a maneggiarla un po’?
- Ehm, Luca…. Io non so… ehm io… beh…
- Dai, coraggio, non vedi che anche lei sembra impaziente?

E così è riuscita a irretirmi, a farmi emozionare anche. Non avrei mai immaginato mi rubasse il sonno fino alle sei di questa mattina. In fondo è solo una playstation. Sapevo di essere una mezza sega… qualunque mostro mi fa fuori. Luca è svelto e anche piuttosto assassino… e mentre lui si impegna nella sua missione di morte, io sto a guardare gli interni e la scenografia degli scenari. A bocca aperta.
C’è da dire anche che verso le due, in un momento di pausa, abbarbicato su polpetta, mi è venuto naturale esternare questo mio dubbio:
- Ma diventerà anche per noi la tomba del sesso?- l’ho guardato vitreo e sospiroso.
- Certo che sì!
Ci ho quasi creduto… se non fosse che in una sola mossa mi ha ribaltato sul tappeto a righe e… vabbeh!

Friday, December 01, 2006

Up on the tram

Deriva.
Ed è come perdersi davvero. Il mio amico Richy ha scritto un libro sulla gente, e sull’oblio di cui si può essere capaci. E pensavo di essere preparato, ormai da anni. Perché ieri è partito il mio tram n°7, e io non avevo neppure finito di fare le valigie.
Qualche mese fa ho scritto un racconto. Non prevedevo nessuna pubblicazione. Direi piuttosto che era un due cartelle due, da leggere a una cena di scrittori. Eggià… in quel di Bo facciamo anche questo.

E se mi capita adesso di buttarci l’occhio, sorrido!
Lo posto qua sotto. Buon weekend a tutti i miei lettori. Sempre quelli… quelli giusti.



Sin dall’asilo ci insegnano che dopo l’estate arriva una “cosa” che si chiama Autunno. Mi ricordo ancora i cartelloni illustrativi tutti colorati, appesi appena sopra la porta della classe. Pensandoci bene, è quindi dalla più tenera età che tutti noi sappiamo questo, ed è da altrettanto tempo che facciamo finta di dimenticarcene, ogni anno.
Forse perché sappiamo che la pacchia è finita, che arriveranno maglioni e canottiere cotone dentro e lana fuori. Che avremo pruriti, raffreddori e, male male andando, ci si tapperanno anche le orecchie per il freddo.
Nessuno si lascia, quando arriva l’autunno. Perché due corpi caldi dentro un letto, a notte fonda, e riscaldamento spento, sono meglio che uno.
Chi, tornato dalla spiaggia, si rende conto di essere single, si preoccupa… e fa bene, direi.
Così, aperta la stagione della caccia, appena prima delle castagne, dei funghi, e delle lumache a bordo strada, non si deve fare altro che decidere se si preferisce essere cacciatori o prede.


L’appuntamento.mp3

-Hallospank- Pensai, questo è scemo. Scorrevo con gli occhi tutto l’elenco degli utenti on line in quell’esatto momento. E fra “tirosututto” e “culocaldoperte”, c’era lui. Aveva scelto il nome di un cartone animato. Ma fra tutti i cartoni, di sicuro il più enigmatico. Spank in inglese significa sculaccione… e già questo avrebbe dovuto farmi desistere. La cosa che mi ha incuriosito sin dall’inizio è stata una sua foto, di lui seduto sul gabinetto, con la faccia da fumetto, che si sforza nell’intento di risolvere l’ostruzione. E in mezzo a tutti i piselli e ai sederi a panettone, glabri o meno, mi sembrava la cosa più normale che potessi aspettarmi. Pensandoci bene, lo era davvero!
Iniziammo a chiacchierare del più e del meno, e concludemmo di portarci fuori l’un l’altro il mercoledì successivo.
- Ma guarda che sono basso e tracagnotto.. dalle foto non si vede!- mi avvisò lui, tanto per mettersi avanti.
Io pensai che invece dalle foto si vedeva benissimo, ma evitai di dirglielo. Mi sembrava scortese.
Mi dimenticai quasi di lui nei giorni di mezzo, che per me sono in genere la più lenta delle agonie. Uscire con un uomo comporta un dispendio di energie non indifferente. Ma cribbio, arrivava l’autunno. Un po’ una mia personalissima visione della morale che risolve le dispute fra formiche e cicale.
Mercoledì, tanto me n’ero dimenticato, che avevo intenzione di andare a casa di amici per cena. E l’avrei fatto, non mi avesse scritto un messaggio come: “Allora? Sei vivo? Usciamo insieme sì o no!”
In un mezzo nanosecondo cercai di formulare una scusa plausibile. Affacciato alla finestra di casa mia pensavo: scusa ho la febbre, scusa mia mamma è venuta a trovarmi, scusa ma ho una riunione al gruppo testimoni di geova (e questa in genere funziona sempre). Mentre congetturavo, un albero si spogliava di fronte ai miei occhi, nel parco sotto casa. Si sbracciava infreddolito, e ogni cosa di lui si intirizziva, mentre una pioggia di foglie lo temperava fino alle radici.
Non esitai oltre. Lo chiamai e via. Ci saremmo visti alle dieci.

Lui arrivò in ritardo. Io me l’aspettavo. Arrivai più in ritardo del suo ritardo. In genere questo è un ammutinamento corsaro a ogni buona intenzione. Noi non ci facemmo semplicemente caso.
- Stasera fa davvero caldo
- Già- e lo dissi un po’ abbacchiato. Parlare del tempo come prima spinta al dialogo rende un primo appuntamento stimolante come stare seduti in sala d’aspetto dal medico di base.
- Infatti ho lasciato la giacca in macchina, per evitare di arrivare qua da te con l’ascia pezzata.
Disse questo, e mi sembrò divertente. Così rallentai la camminata, evitando di vederlo scapicollarsi in quei due passi larghi, che recuperassero il mio solo passo normale.
Mi offrì una birra in un bicchiere di cartone, da bere seduti fuori. Ma scelse un angolo in disparte rispetto alla bolgia umana che si riversava fuori dall’ultimo bar del Pratello.
Tenemmo una certa distanza fisica. Mi apparve come un buffo ometto timido, ma bastava che si sentisse abbastanza spregiudicato da guardarmi negli occhi due secondi di seguito, per farmi contento. Per incuriosirmi.
Mi accorsi che quasi involontariamente, pian piano, strisciavo il mio posteriore sul gradino del portico, fino quasi a saltargli in braccio. Versione adulta del celebre gioco da cortile: “un due tre stella”.
Mi fece vedere le mani, le unghie mangiucchiate, tanto che mi aspettavo di vedergli sbaffi di pennarello rosso sul dorso. Ma la sua risata era come deve essere una bella risata. Bianchissima e rumorosa.
Passavano i minuti e le resistenze si asciugavano, come la schiuma della birra sui nostri baffi.
- Mi diverto con te- mi disse d’improvviso- Mi diverto a tal punto che potrei anche raccontarti di quando due anni fa mi sono fatto la cacca addosso nel giardino dei miei.
Ci fu un lungo momento di silenzio. I miei occhi si sgranarono quasi nell’istante in cui smise di parlare. Di fronte a me lui seduto, ma nella mia immaginazione, quasi in simultanea, c’era sempre lui ma con i pantaloni macchiati e una bolla al naso dalla vergogna.
Le mie labbra si tirarono quasi a toccarmi i lobi delle orecchie. E risi. Risi senza sapere quando avrei potuto fermarmi.
- Stai scherzando, vero?- speravo mi dicesse di no!
- No non scherzo, davvero… era dopo pranzo e pensavo fosse una scoreggia.
Qualunque cosa succeda, sono sicuro che questa non la dimenticherò finché campo.
Mi resi conto che non ero uscito con uno che ha il nome di un cartone animato, ma che un cartone animato lo è davvero, e inequivocabilmente.
Parlammo di musica, e mi confessò tutti i suoi più atroci misfatti in fatto di gusti. Tanto valeva vuotare il sacco, e dichiarare i miei. Ci fu indulgenza vicendevole. E consolazione immediata.
Essere sé stessi non era mai stato così facile, né così semplice.
Lo accompagnai alla macchina, sul fare della notte fonda. Mi tese la mano per salutarmi. Lo tirai verso di me quasi contrariato, e gli diedi un bacio sulla guancia.
A questo punto si dice sempre, qualunque sia il bilancio della serata:
- Ci sentiamo presto. Possiamo rifarlo.
Nel mio caso fui sincero. Lui lo capì, e basta.

Da quel mercoledì è passato quasi un mese. Lui continua a parlare della sua cacca ogni volta che può, e io tiro su gli occhi, facendo finta di essere compassionevole come Maria addolorata sotto la croce.
L’altra sera, mentre stavo sdraiato sul suo divano, e lui stava sdraiato sopra di me, comprimendomi il respiro, gli ho detto, o meglio… sibilato che avrei scritto questo racconto.
Lui ha detto:
- ah bello…
Ogni molecola di lui fremeva già dalla curiosità. Io penso solo a quando si meriterà di leggerlo.

Wednesday, November 29, 2006

Joan di Brooklyn

Yesterday:
Joan as policewoman. Live @ estragon. Ore dieci.

Ammiro Sister, che si sfila la cravatta, abbandona la giacca integerrima, in quattro nanosecondi. Perché quel cuore veneto è undergroung. Così una felpa grigia col cappuccio, una coppola nera, e una pin bianca sul bavero: Jesus saves. Sister mi somiglia, volente o nolente!
Io pullover da battaglia e timberland di ordinanza.
I paggetti perfetti per Joan, in esorbitante ritardo. Pazienza, perché almeno abbiamo bevuto una birra e pucciato chiacchiere nella schiuma.
Lei coi capelli appena phonati, un chiodino di pelle cucitole addosso e braghe cargo a tre quarti, con fibbie di pelle scura. Bellissima. La ragazza di Brooklyn, che si è presentata al poverissimo pubblico di Bo con un inchino, attenta a non versare il tè, dalla mug che teneva in mano. E per un attimo l’ho vista simile a tante altre ragazze di NYC, che camminano per strada in una mattina gelida, che stanno con un capellone che lavora in un negozio di musica, ma che nel frattempo spera di fondare una nuova band, per sfondare.
Joan, nel ruolo della poliziotta. Ci ha fatto entrare nel suo mondo di musica, come una che vuole, e non che deve solo perché davanti a lei ci sono persone che hanno pagato un biglietto. Lo ha fatto permettendoci quasi di spiarla, in due o tre tracce solo voce e piano. Per poi riempire l’aria di tamburi e elettricità misurata, col resto dei suoi musicisti, piuttosto validi. La sua voce, leggera o quasi sguaiata, pesante nei bassi e soffiata nelle preghiere. Graffiava comunque, perché mai casuale. Lei era dentro la sua musica, tanto da commuovere molti di noi (ok, anche me e sister… ma noi siamo gay, abbiamo sempre un’attenuante).
Poi, saprete bene che cornflakesboy, tornato dalla sua trasferta odierna di Roma, posterà qualcosa di molto tecnico, da vero esperto. Io non posso. Non alla mia sister. A ognuno il proprio ruolo. Lui informa e critica. Io vaneggio, e solo perché ero lì, a passare una serata in musica.


Però, da scrittore in progress, vi regalo qualche parola della brava e bella Joan, che ieri ci ha dato con la sua musica. Com’è che la definirebbe qualcuno? Rock jazz, perché a noi gli ibridi sono sempre piaciuti molto.lo

ng as you follow me this is w Strip me I’m already threadbare enough to see the mark of blueprint in my makeup… mapping the gost in me. (Show me the life)

Joan sarà oggi a Torino, poi a Reggio Emilia e infine a Roma. Come dire.... fate vobis.

Tuesday, November 28, 2006

Siamo due, che soltanto.

sms:
Pensavo che con te non mi annoio mai, che mi fai ridere (di me), e che divento quasi semplice. Come se tu stessi diventando le “soluzioni a pagina 84”. A.

E il vento sta cambiando. L’inverno si poggia sui tetti del mio piccolo mondo. Del mondo che vedo dalle mie larghe finestre. E un uomo soltanto sta diventando il solo.
Luca.
Perché il suo nome non è più un segreto, e sfido le scaramanzie della mia più pagana fifa.
È rimasto nella pancia, in un momento che passa piano, e che definirei sbagliato. Prova del fatto che ti può accadere di tutto, ma le cose decidono per loro conto. Finchè l’ultimo rimasto nella lista, da convincere. non sei proprio che tu.
Luca sta seduto con le gambe intrecciate alle mie, come due cime sulla zattera (divano giallo di casa mia). Luca aspetta un mio bacio, mentre lo guardo naso contro naso, in quei pochi centimetri di attesa che sospendo, per vedere i suoi occhi fermi su me, e le sue ciglia che si aprono sulle mie.
Luca ha visto il mio segno, la mia vera pelle sotto il pomposo costume di scena. E non si è mosso. Gli ho chiesto cosa lo trattenesse su quella zattera, da mesi ormai, e lui non ha risposto. Ha solo sorriso, guardandomi di sbieco.
Così, lui come cura, di una mia volontà precaria, funambola. E in silenzio, senza prometterci nulla, ci siamo fatti compagnia, fino ad allevare le parole, ancora talmente neonate.
E vagisce un suo messaggio, nel cuore di una notte qualunque, in cui mi confida, intimo, che non può più fare a meno di me.
Si pagano sempre momenti così, e in anticipo. Perché è valsa la confusione; è valso il vano tentativo di dirgli addio senza mai riuscirci; è valsa la pena di mettere in discussione tutto di lui, e prima ancora tutto di me.
Siamo rimasti sul divano giallo a due posti, mirando bene la deriva, e abbiamo continuato a tenerci compagnia.
Siamo due che si abbracciano, che si tengono a distanza, che si criticano, che si stanno aspettando agli angoli di due strade; due che si svegliano insieme col sorriso, due che si baciano e tirano tardissimo, due che fanno l’amore e poi gli tocca correre sotto la pioggia per non perdere l’inizio del film al cinema. Due che si studiano, imbracciando le armi; siamo due che hanno ancora paura.
E due che non vorrebbero mai smettere di sfottersi, per ogni cosa.
Solo due, che si tengono per mano, mentre dormono.


Morale: uno spazzolino da denti non si dimentica mai per caso. Se poi, quando a dimenticarlo sei tu e il bagno è il mio, ancora di meno. Non mi freghi, sappilo!

Wednesday, November 22, 2006

Piroette

Corro e rincorro, inspiro ed espiro. Scintille e fuochi al bordo del cammino. Setacci e filtri, ma spremo e verso fuori dal bordo, tutto di me. Senza residui o a pugni chiusi, premo i piedi o li sollevo da terra, quando perdo l’equilibrio; quando mi lascio andare all’indietro sul letto, con le braccia sollevate.
E si fa buio senza che me ne accorga, o aspetto l’alba alzato, quando la luce è argento, quando la città sbadiglia e spegne la sveglia. Io lì, con le mani sugli occhi, e i vetri delle mie finestre appannati. E conto le sigarette che mi sono rimaste.
E il cursore nero delle pagine word che scivola veloce, da sinistra a destra, perdendo le briciole di Pollicino, che difendo dai passerotti in agguato. Le mie parole, che sfilo da me come lacci per le scarpe, come cinture di tela colorate.
Vi svelo però un segreto: io non scrivo su un blog per ricevere onori e applausi. E quando capita che qualcuno mi faccia un complimento, io arrossisco. Spesso scrivo cose per qualcuno in particolare, e spendo riferimenti nascosti per qualcun altro. Posto per il bisogno, per l’urgenza di doverlo fare per me stesso. Ma voi, occhi attenti, avrete me, sempre. Ed è speciale quando le mie parole tirano le vostre, poi impresse in polaroid che mi lasciate scivolare sotto la porta. La vostra vita a me aliena, perché lontana. La vostra voce che mi immagino e basta. I vostri amori e le vostre nostalgie che mi commuovono e, solo molto raramente, mi ammutoliscono. In un canone di dita che ticchettano, che riempiono i vuoti delle nostre strade, sempre troppo zitte, sempre troppo assorte nei propri affari. Una magia di solitudini imperfette. In una quadriglia di pugni leggeri, che bussano agli stipiti delle nostre porte.
E vi lascio alla vostra vita, da raccontarmi, mentre raddrizzo le curve a gomito della mia. Occhi attenti sempre. Uomini quarantenni, io vi spio, dalla mia tenera età che brandisco come alibi, per il mio tempo che perdo volentieri, per questa piroette che mi sono concesso.
Abbiate pazienza.

Monday, November 20, 2006

Eppure (sentire).mp3

Eppure è una parola che mi riguarda, e che mi somiglia. Parla di me, e della mia inesauribile tentazione al nonostante tutto. Una boa rossa sul pelo dell’acqua, tenuta a vista dal mio pensiero, mentre nuota affannato.
È utile per tirare fiato, e per ricordarsi che si perdono possibili risposte ovunque.
E io e te siamo pieni di eppure. Giriamoci attorno finché non ti stanchi.
Nelle nostre mezze parole, nei nostri occhi da nascondere, nei sorrisi che sarebbe meglio di no.
Un senso di te.
Ci sarà, se resisti ai miei tentativi di ammutinamento, alle mie speranze di sfebbrare, e riportare la mia attenzione fuori dalla tua portata. Tu che mi distrai con un solo colpo di tosse.
Mi avvicino a te in punta di piedi. Ti annuso solo un po’. Ricordo come sia stato perdermi, mentre ti scivolavo in bocca.
Oggi siamo leggeri in mezzo agli altri, nella nostra apparente noncuranza.
Eppure.
Le tue mani su per la schiena, o strette al mio palmo. E lo sguardo che non reggi, mentre le ciglia si piegano per non rendere quel momento un’ennesima attesa. Eppure ho aspettato che mi massacrassi, che mi ferissi e allontanassi, come mi avevi promesso.
Ma ho scoperto che non serve, e non basterebbe mai.
Il senso che ha questo mio sentire sarà pure invisibile agli occhi della ragione. Che si nasconda pure, ma io non sospetto mai la sua assenza. Le mie domande gli faranno anche ombra, ma lo sento respirare al buio.
E non volevo scrivere di te, né pensavo di riuscire a farlo per tutte queste righe. Saranno sempre troppe per quel niente che da allora mi chiedi di darti.
Ti lascio una canzone galleggiare nel cerchio degli eppure. Se capirai che è opera mia, non dire una parola.
Appoggiatici piuttosto.

Bobby Jonathan e Clare

“Restiamo un po’ a guardare le montagne, poi ci giriamo verso la casa. È talmente vecchia che perfino gli spiriti si sono fusi alle pareti. La si sente abitare non dall’infelicità personale di qualcuno ma dalle esistenze di dieci generazioni, dei loro pasti e delle loro liti, delle nascite e dei loro ultimi respiri”

A loro è sembrata così, quella casa alla fine del mondo.
E io li ho invidiati, non saprei spiegare quanto. Perché avevano in dono qualcosa che un’amica, una volta, ha chiamato nel modo più giusto: il loro amore disordinato. Ci penso da ormai troppo tempo. Non avere paradigmi ma dare l’accesso a qualcosa di sconosciuto. Come una mano che entra dentro la sabbia asciutta, e stringe le parti più nascoste di te. Bobby, Jonathan e Clare, sono diventati un nuovo esempio, che conserva pentimenti e l’ombra del fallimento. Ma quei giorni sono i più belli del libro. Quando Clare dice:
-Cammino per la casa e ho come la sensazione di trovarmi sull’ala di un aereo. A diecimila metri. Vorrei che a te e Jonathan sembrasse strano come a me”.
Era la loro rivincita, la rivalsa di tutte le notti della loro vita precedente quel momento. Era il loro segreto miscuglio di amicizia e amore, di emotività spremuta.
Michael Cunningham mi ha insegnato così tanto, della scrittura, e della spettinata immaginazione di cui è capace. Ma ha fatto qualcosa in più. Ha scritto di tutti noi, e delle nostre possibilità di riuscita. Di questo futuro che non conosciamo, che possiamo inventarci in una menzogna, che ha comunque la vita breve di una qualunque verità. Perché Clare pensava che sarebbe rimasta, perché Bobby credeva che Jonathan si sarebbe salvato alla fine, e che quelle macchie erano solo dei lividi innocenti, e che tutto sarebbe rimasto immobile.
Ho scoperto, attraverso questo libro che non è solo un libro ma una vera e propria storia, che esiste sempre un altrove, oltre ciò che possiamo immaginare per noi stessi; e che quell’altrove può essere addirittura meglio.

“Così restammo seduti a cantare su quel terrazzo finchè non venne davvero buio e intorno a noi la città fiammeggiò di dieci milioni di party”

Oggi sposi

Anche io ho avuto un primo amore. Uno di quelli pazzeschi, che levano il fiato; che ti fanno quasi illudere che sarà sempre così. Ero un piccolo uomo, con un tale prurito alle mani. Lui sarebbe stato colui al quale avrei destinato pensieri laconici e densi per una decina d’anni. E dal nostro primo incontro lo avrei dovuto sospettare. Quel primo amore non si sarebbe asciugato facilmente. Così, in rincorse repentine, a dispetto dei miei successivi tentativi d’amore, a dispetto della distanza, ci siamo voluti bene sempre. E sempre, in qualche angolo del mondo, abbiamo trovato lenzuola da sgualcire per bene, commemorando.
Fino alla scorsa primavera, quando, mi ha comunicato che si sarebbe sposato col suo fidanzato. Lui, oramai, cittadino inglese, lo ha potuto fare. E io che mi illudevo che noi gay saremmo stati immuni, almeno, a questo strazio: una partecipazione di nozze che scivola sotto la porta, e che ti ammutolisce per giorni. Leggi i nomi sopra e squoti la testa. Ti senti l’escluso per eccellenza.
Al matrimonio poi non ci sono andato, sebbene meditassi di varcare l’improbabile navata vestito come Madonna in like a virgin o almeno come l’ultima Bertè (della serie: guardatemi, non sono affatto sana di mente), e gridare a squarciagola “sposa me sposa me sposa meeee”.

Saltiamo nel vuoto e arriviamo ai giorni nostri. Pronti? Ecco.
Il mio amico Umberto, spagnolo, qua in erasmus, mi racconta che il suo fidanzato madrileno gli ha chiesto di sposarlo. Io, ghiacciato in tutte le mie estremità, ho iniziato seriamente a pensare a questa cosa, tanto che sui matrimoni oggi scrivo, perché ho qualcosa da dire!
Tralasciando l’immagine di me che mi ritrovo un uomo in ginocchio, che mi chiede un Persempre, perché la cosa mi commuove al solo pensiero, ho una domanda!
È davvero possibile che la probabilità di un legame certificato, indiscutibilmente ufficiale, condizioni i desideri, le prospettive di un’intera generazione che cresce? In fondo noi, omosessuali da qualche lustro oramai, siamo stati abituati al sapere che, nel caso la cosa fosse andata proprio grassa, avremmo forse messo su casa (già fatto, già dato, grazie), ci saremmo forse presi insieme un cagnolino e quella sarebbe stata la “famiglia”. Per noi un eventuale legittimazione, sarebbe indispensabile per mille ragioni che prescindono dai sentimenti. Ma per i giovani gay, sapere che le loro possibilità comprendono una cosa così normale come il matrimonio, in che modo modifica le loro speranze sul futuro? È possibile che si sentano meno “diversi” di quanto ci siamo sentiti noi?
Perché noi tutti figli della televisione e dell’univoca rappresentazione di come si dovrebbe vivere per essere felici?
Ecco, poi penso seriamente a come mi piacerebbe promettere il mio per sempre finchè dura. E lo farei solo se credessi che quel “finchè dura” sia un modo per scongiurare le iettature. Vorrei i miei amici accanto, che giurassero di ricordarmi la gioia di quel giorno, anche quando le cose smetteranno di andare in maniera celeste. Vorrei che Lui si dedicasse le stesse attenzioni. E per me Dio non c’entra nulla. Scriverei di pugno quel che potrei promettergli. Non sarebbero frasi fatte, ma quel che sono sicuro di poter mantenere sulla linea di quel per sempre. Comprendendo anche l’inevitabile possibilità che in qualche giorno io lo detesti, non abbia neppure voglia di parlargli. Perché forse sposarsi non significa promettere all’altro una vita felice, ma una vita e basta!

Monday, November 13, 2006

Ma quest'anno sì

Burro sugli occhi, e bocche chiuse.
Arriva un post che non devo scrivere, ma che mi scivola via.
Tre giorni di tonsille come due pompelmi, valgono a conservare la voce per dire qualcosa. Prima di tutto vi do un odore però: sulle mani ho il profumo di mandarini, i primi di questo altro inverno, qua dietro. Shit I turn into my mother, ci manca solo che anche io dica come lei ogni anno: “Uhm che buon profumo di natale!”.
Ho deciso che quest’anno farò l’albero. Due anni fa me ne sono ben guardato, mentre mollavo il fidanzato storico. Mi pareva di cattivo gusto impacchettargli anche il biglietto per il non-ritorno, proprio affianco al carbone di tutte le befane del mondo, scese in picchiata sulle loro nimbus2000 per dirgli: non sei stato proprio buono eh!. L’anno scorso invece mi ero appena trasferito in questa mia piccola scatola di fiammiferi che ho l’ardire di chiamare “casa”. Ho ripiegato su un simbolo del natale; un addobbo astratto, così tanto che nessuno lo ha colto. NO, quest’anno voglio l’albero casa americana famiglia tutta riunita, diciamoci ailovviù!
Pensavo al bianco, alla neve, al color latte da farci tuffare un biscotto con la granella al cioccolato.
E che ci appendo al verde sintetico? Io direi prima di arrotolare le luci, di quella bella luce coscienza, niente pacchianate multicolor evviachesonogaytiè! Questo nuovo senno illuminerebbe gli amici, carissimi, appesi al gancetto. Vorrei vederli bene, soprattutto a natale. Perché è questo il periodo in cui chiunque vorrebbe avere tutti accanto, a bere ciobar e a dirsi le solite cattiverie tutto zucchero. Quelli nuovi di zecca, ma anche quelli vecchietti, quelli di sempre. Coi loro faccioni sorridenti, versione buonefeste. Poi un nastro argento, che li tiene stretti. Un bel nodo doppio, come fosse un regalo. Muschio da darsi i baci tutto gennaio. Io e Paky in realtà lo abbiamo fatto fino a giugno. Il rametto sopra la cucina era diventato un rachitico bastoncino, senza una foglia che una! Ma per un bacino sulle guance, ci si può dire una piccola bugia!
Sotto il mio albero so che ci sarà un ometto buffo, probabilmente con addosso il vestito da renna più chip che avrà trovato; una polpetta su due gambette, che mi chiama: “la mia velina!”, che si rulla una canna mentre mi sfotte per vedermi imbronciato. E fare la pace sotto natale è come avere un oro Saiwa e una marmellata zuegg… qualcosa di ovvio, insomma!
Ma vedo anche gocciolare sui vetri una piccola delizia, viziata e di vapore. Ci potrei disegnare un bello smile col dito. Due punti come occhi, e una curva all’insù. Per poi, ne avessi solo il coraggio, cancellare tutto con un palmo di mano, guardare fuori e dire:
- Oh, little polpet (polpettina insomma), cosa avrà chiesto quest’anno Paris Hilton a babbo Natale?

Thursday, November 09, 2006

Serrature

Una mattina di sole.
Ho aperto le finestre, e mi sono rimesso a letto. Ho quasi freddo, sotto le coperte. La città che mi cola attorno, scivolando nei rumori di chi vive troppo presto per me.
E tu che fai? Chissà se dormi ancora.
Chissà se hai già messo su un caffè, e agiti la testona mentre la musica suona forte in cucina.
Magari ti gratti il mento, come me. Magari hai messo in bocca una sigaretta, cercando un maledetto accendino che funzioni.
Hai visto fuori, quanta luce?
È così che succede che pensi a te. Mi immagino di vederti, di spiarti attraverso una serratura.
Ho tutte le tue parole scritte sulla mano, fino ai polsi. Quando le leggo mi rendo conto del loro senso. Una preghiera che assomiglia a una menzogna.
Ti vorrei gridare in faccia quanto mi fai incazzare, quando pensi di avere ragione su di me. Quando mi vendi le tue difese come fossero un verbo divino. Vorrei grattare con la spazzola di ferro tutta l’aria del mondo che lasci fra noi, e vederci vicini, con solo la verità.
Quella verità che ti è volata fuori dalla bocca, e che hai nascosto nelle tasche in fretta; per poi sperare che io non abbia fatto in tempo a vederla. Eppure.
Oltre la serratura stamattina ci sarai tu, seduto a pensare. Le tasche piene di cose non dette. E qualunque segreto che neghi al mio tempo.
Al di qua, invece, ci sarò io in silenzio. Contando i respiri.

Wednesday, November 08, 2006

Paky, mon amour.

Questa è una storia che mi piace raccontare.
Per anni è stato un amico di amici. E non mi stava neppure simpatico. Con quella sua arietta tutta spocchiosa, da chi tiene il mento sempre per aria. Solo molto tempo dopo avrei scoperto che quel naso tirato sopra ogni cosa non è altro che un modo per fiutare eventuale cibo!
Non ricordo il giorno in cui me lo presentarono, ma so che il mio giudizio da mannaia non fu per nulla clemente. Per lui fu la stessa cosa. Mi considerò uno da poco, un’isterica che sbraita per ogni non nulla (Beh, anche adesso a dirla tutta).
Poi, la vita a volte eh?
Quando ho lasciato lo storico fidanzato, dopo anni di convivenza, ho traslocato dall’altra parte del centro. Un viaggio che ho finto fosse estenuante. Non saranno neppure due chilometri in fondo. Ma almeno ho cambiato quartiere, pulendomi le piume da araba fenice. Di quel quartiere Paky è l’indiscussa regina. Matrona santificabile al mercato, con le sporte colme di parmigianini e la borsa del suo personal computer a tracolla.
Per quelle mie nuove strade, la mia vita ha incrociato la sua. Ed era inevitabile che fosse ammmmore. Preciso: non l’amore che leva le mutande o che fa nidiate le farfalle nello stomaco. Ma l’amore diverso, dell’estrema confidenza, della salvezza se tu ci sei, della consolazione del “non appena arrivi tu”.
Paky ha praticamente trent’anni. Lui sbatte i piedi, rendendosi alquanto ridicolo. Sostiene che siano solo e “appena” ventotto. Non sa che vale la pena approssimare per eccesso a volte. E lui, l’eccesso lo conosce bene. Ne è figlio. Di origini campane, come dire, non rinuncia alle sue radici. Da posa plastica di madre di Scampia, da guance sempre pronte a trasfigurare nella maschera della sceneggiata.
Paky è uno de core. E io quel cuore l’ho visto, tutto e per intero. So quanto vale e so come ti accoglie. Entrato ad honoris causa tra le starlette della comunità bear di quel di Bo, fa innamorare tutti. Tra le pagine di quei profili si sente: “magra”. Dice di avere la stessa pancia che aveva Demi Moore incinta, fotografata dalla Leibovitz per Vanity Fair. Ha insistito tanto nella sua arringa che ho dovuto fargli una foto pressoché identica. Alla fine ha avuto ragione lui.
Cucina divinamente, ed è una fortuna essere invitati a pranzo da lui. Ancor più fortunati si è, se si riesce ad assaggiare quel che lascia nei piatti di portata. Succede raramente, ma succede!
A un anno dalla mia rinascita, lui è l’unica faccia che c’era fin dall’inizio. Dagli albori. Non ha mai mancato una presa, beccandosi spesso il mio turpiloquio esasperato, le mie crisi di coscienza, le mie enfasi verbali, i miei pruriti sessuali, da dovermi accompagnare al baccaglio anche alle tre di notte.
Quante volte, non lo so!
Anche quando viaggia, non si dimentica mai di accertarsi di come stia.
- Cessa, come stai?- è la sua classica entrata in scena.
Dolce, dolcissima mia Paquita. Sei come la Panda… se non ci fossi bisognerebbe inventarti.
Piuttosto, ci staresti mai seduto in una Panda?
Errata corrige: Sei come due, tre Pande….
… suona meglio, no?

Grazie per essere la mia cura. Ogni volta. A te potrei promettere ogni mio per sempre!
Paura eh?

Tuesday, November 07, 2006

L'amore che.

L’amore delle cabine telefoniche sotto la pioggia, da cercare per dire solo buonanotte. L’amore alla domenica mattina, quando è la luce a svegliare chi dorme. L’amore del primo momento, quando ogni cosa appare ovattata. L’amore dell’ultimo momento, quando ogni cosa è persa, e assume il giusto valore nell’assenza. L’amore da guardare il mare e ricordare. L’amore del buio delle mani sotto le magliette calde. L’amore di chi si guarda anche durante un film. L’amore del ti voglio qua, ne ho bisogno. L’amore del ci vediamo domani, se ti va. O quell’amore degli abbracci d’improvviso. Le scie del non potrò dimenticarti, e anche le rincorse del non posso lasciarti! L’amore di chi non lo voleva, e invece. L’amore del finalmente ti ho trovato. L’amore del dimmi solo sì. L’amore del ti prendo e ti porto via, lontano. L’amore del sto arrivando, scusa il ritardo. L’amore del andiamo a cena fuori io e te. L’amore di chi si sposa in un altro paese. Quell’amore di chi si comprende anche solo per il rumore del respiro. L’amore del mi manchi da morire. L’amore del ti chiamo appena finisco, del dormi da me stanotte, dei gelati di piazza Santo Stefano alla sera mentre ti tengo la mano di nascosto. L’amore di chi suda occhi negli occhi. L’amore di chi resta e vede l’altro andar via. L’amore delle piccole cose che di te trovo in giro. L’amore del non so come sia potuto succedere. L’amore del non ci credo, non dire stronzate. L’amore di chi chiede scusa. L’amore di chi perdona. L’amore di chi non ci riesce. L’amore di chi piange perché è troppo. E di chi piange perché non è abbastanza comunque. L’amore di chi non è pronto per questo. L’amore di chi dubita, e anche quello di chi è davvero sicuro, sorprendentemente. L’amore che si sente dentro, e quello che si disperde. L’amore di chi lo conserva, attendendo. L’amore di chi lo confida senza guardare negli occhi. L’amore di chi lo dichiara, e quello di chi non lo farà mai. L’amore del fanculo ti amo, urlato sopra l’epilogo. L’amore, che descrivo, nei riflessi di ogni dritto e rovescio. L’amore di cui scrivo. L’amore opaco che la mia vita non ha ancora, e non più. L’amore che mi manca, dinnanzi all’amore di chi probabilmente legge queste righe.

L’amore di chi se la sente.
Fuggi Romeo, il tempo è tiranno, non è di usignolo, ma d’allodola il canto.

Monday, November 06, 2006

L'insostenibile leggerezza di essere sagittario

Che già essere nati a dicembre, così vicino a natale è un bidone. Sin da piccolo mi sono sentito dire la stessa cosa, tutti i sacrosantissimi anni che piovono in terra:
- Ma preferisci due regalini piccoli o un solo regalone grande?
Morale della favola : io ho ricevuto sempre meno regali di chiunque altro!
Ma non tergiversiamo… che la questione urge.

- Di che segno sei?
- Ehm, sagittario..
- Oddio, che cosa orribile / - Noooo. Mi dispiace! / - Beh, che sfiga!/ etc etc etc

Ogni volta sempre la stessa storia; come se essere gemelli o ariete o cancro fosse una prova incontrovertibile di essere salvi, di avere un destino più roseo. Noi sagittario siamo confinati alla pestilenza della sorte, finché morte non ci colga. Io, ogni capodanno aspetto il riscatto. Quando le copertine dei giornali da parrucchiera ( la mia ragione di vita, intendiamoci!) promettono nei titoli un dossier all’interno, in cui si rivelino i segni fortunati del nuovo anno, IO avidamente mi tuffo alla ricerca di una possibile promessa. E mai che ci si dica: “sagittari state in una botte-de-fero”… anzi! Gli esperti iniziano a parlarci di trigoni, di cuspidi, di decadi, di Saturni che insomma mannaggia a loro, di Veneri che forse magari in nove mesi qualcosa ce la regaleranno pure… così ogni capodanno, richiudo la rivista dal dossier di vane speranze, e medito di lanciarmi tra le fiamme del camino; poi desisto sempre per fortuna, nonostante mia madre a quel punto, ogni anno con la precisione di un orologio svizzero, mi domandi: “ allora ti è piaciuto il Regalone di questo complenatale?”… e allora vaffanculo!
Questa settimana ho navigato nell’incertezza esistenziale. Non direi che è una novità per me, anzi! C’è chi ha le scarpe da trekking per la domenica, e c’è chi (io e pochi altri) ha le scarpette senza suola per camminare sui vetri delle proprie sventure. Così, obnubilato da troppi foschi quesiti, ho deciso di ripiegare nella sola risorsa rimastami. L’oroscopo. Ma nessuna testata, nessuna pubblicazione per la settimana che verrà, mi ha soddisfatto. Così, stavolta, suggerisco un golpe in piena regola… stavolta il mio oroscopo me lo scrivo da solo! Tiè!

Sagittario (22 novembre – 21 dicembre):
Amici del sagittario siete in una botte-de-fero! Lasciate perdere chi vi rema contro. Le stelle parlano chiaro. Questa settimana la vostra vita riprenderà quota, lasciando gli altri segni dello zodiaco a farsi delle gran pugnette per l’invidia! Per chi è single, l’amore della vita è dietro l’angolo ad attendevi; per chi è in coppia si prospettano giorni di grandi progetti, per chi è invece in trigono (significherà esattamente questo? Bah!) avrete le risposte a ogni vostra domanda! A ogni vostra domanda! E seppiatelo già: quest’anno avrete due regaloni… in barba al passato. Rallegratevi!


Quindi: stretta e la foglia, larga la via , voi dite la vostra ( se necessario) che io ho detto la mia!

Sunday, November 05, 2006

Una lettera per caso

Quando la mia vita non basta, mi immergo in quella altrui; perfino nelle pieghe dell'amore che sogno, e che un po' mi vive dentro. Una lettera per caso, spinta dalla curiosità per renderla vera, dall'immaginazione ... croce e delizia di questa mia testa.


Amore,
non ho ancora ritrovato il fiato per parlarti. L’ho perso con te, trascinato sotto la terra nuda, che ti tiene stretto. Screpolerei le mani, sbuccerei la pelle del mondo per riaverti qua. È mattina, e neppure nella tenerezza del giorno che nasce appena, io riesco a non pensare a te. Questa, di mattina, è perfino più ingrata. Ti amo dal principio della mia vita stessa, quasi; e non riesco a immaginarla diversa da così: legata a doppio nodo alla tua, che si è spenta tre mesi fa ormai. Mi vergogno a confessare agli amici che ogni cosa è rimasta immobile, come sopita insieme a te. I tuoi fogli sullo scaffale dell’ingresso, gli asciugamani in bagno, i promemoria sul frigo. Sono ghiaccio sul quale non fiorisce nulla, se non la polvere. Polvere come colla per i ricordi, stesi lì a farmi compagnia. Perché ogni piatto che rimane pulito, ogni suola di scarpa che il tuo passo ormai manca, ogni movimento risparmiato dalla tua assenza, taglia i miei occhi di sale soffiato, come ferite.
Mi hai detto ti amo, mollando la presa del mio sguardo, mentre perdevi il futuro su un letto d’ospedale. Questo a me basta. Ho reclinato la testa, in quel primo minuto di abbandono, sicuro che la mia memoria ritornerà lì ogni giorno, qualunque cosa capiti negli anni che attendo.
La tua prima occhiata, all’università. Non avevi le ultime monete per il tuo caffè al bar. Io aspettavo, spazientito. Mi divertì però, vederti in difficoltà. Ti prestai altre cento lire. Non le ho mai riavute indietro. Anni fa, in una memoria che perde i contorni, come fosse una bambina dall’occhio pigro, la mia vita ha incontrato la tua. Non avresti mai pensato che da allora la vita sarebbe stata solo una. Parlo degli ultimi vent’anni, e del tesoro che conserviamo. La fatica di quest’ultimo brandello di noi, verde corsia, intubati entrambi. Tu alla gola, dal di fuori, io al cuore nel vederti così.
Le fughe al mare d’inverno, da ragazzi. La centododici di tua madre, e la paura di tornare a casa tardi. Il gelato sbrodolato fin sul collo. E fare l’amore come due ladri, come meschini relegati all’ultima ombra del mondo. La pena per le parole taciute, e le mani ferme nei cinema troppo affollati. Ma sai che rifarei ogni cosa, dal principio, se potessimo scavalcare le malattie della sorte. Solo questo vorrei fosse diverso. I nostri primi anni; a loro sono affezionato. Inizio a essere vecchio, e commemoro le primavere del cuore. Ti sembrerei patetico, riuscissi a leggere queste mie righe.
Ma sono proprio quelli i momenti che rivivrei, per primi. Ti sembra curioso? Non gli agi, le comodità dei due professionisti che siamo diventati, no! Ma le bugie raccontate al mondo, e i giorni a sperimentare tentativi per nuove invisibilità.
Ricordo il primo bacio. La nostra prima buonanotte a fior di labbra, soffiata breve. Io a te e tu a me. Quel coraggio non tornerà più. La febbrile incoscienza di quel offrirci in pasto.
Ogni cosa è stata nostra davvero. Abbiamo posseduto tutto, perché attenti al pericolo di perderlo.
Non pensavo ti ammalassi. Imprevisto che ci ha raggiunto cogliendoci impreparati. E, accettato il mostro che ti era dentro, abbiamo lottato contro di lui, come due belve. Finché tu non mi hai detto: basta, non serve ormai. Eri pronto più di me, e prima di me. E la pelle era la tua. Quella stessa pelle che sembra lasci ancora orme sul letto, e che invisibile lo è diventata davvero.
Dimmi tu che ne devo fare di tutti i tuoi vestiti, dei tuoi dischi che ho sempre detestato, di quella insopportabile radio del bagno che gracchia. Potessi rispondermi, diresti di buttare via tutto, come mi hai già detto poco tempo prima di perdere la voce, attendendo la fine. Ma ho scoperto che non posso. Ti racconto una cosa: ieri sera ho preso dal negozio sotto casa delle scatole di cartone. Sono servite a trasportare dei pelati fin qua. Adesso che dovrei farci? Riempirle per un secondo viaggio, non più di polpa di pomodoro ma di te; del tuo passaggio oltre queste mura, fin dentro la mia vita. Il nostro passato in un cartone per alimenti? Non posso, non chiedermelo.
La cosa giusta sarebbe che ci fossi tu, qui, a far rivivere i tuoi oggetti, a riaprire i tuoi libri, a cercare le custodie dei tuoi dischi. Ricordo te ne mancava sempre una all’appello. Così costringevi me ad aiutarti a cercarla.
Amore, secondo te è normale che adesso abbia paura? Perché è così che mi sento. Perso.
Eri come una verità su di me, sugli altri, sul mondo. Una ragione per incuriosirmi. E una volta che le mie ciglia si saranno asciugate, avrò difficoltà a trovare nuove domande. Ho così tanti ricordi da salvare, da mettere a riparo. Schiverò la demenza, nelle lontane terre del disincanto della vecchiaia. Non dimenticherò niente. Avrò te come punto. Rinascere senza un arto è una fatica che mi sembra inutile sopportare. La volontà è sopravvivere al tuo silenzio. Eppure amore mio, da quando sono bambino, conosco una storia che ti ho raccontato spesso. Sembra che gli angeli sentano il rumore di un desiderio espresso sottovoce. Se un angelo che passa di qua, decidesse di dire “amen”, il desiderio si avvererà.
Tu forse potresti raggiungermi, in silenzio, senza fare rumore, e provare a regalarmi tutti gli amen di cui sento di avere bisogno.
Forse lo farai davvero. Io potrei confondere l’animo che ho, e mostrarti una serenità che ti ho promesso. Non mi hai creduto allora, ma tenterei di ingannarti, per un attimo.
Sentirti aprire la porta, gettare la borsa sul pavimento e raggiungermi nello studio. Sentirmi dire che ho voglia di una vacanza. Penso alle cose stupide di cui abbiamo discusso, agli ingorghi della passione che avremmo voluto ci divorasse sempre. Invece abbiamo imparato l’amore, e le promesse che gli innamorati infrangono. Il nostro amore è stato un segreto fra noi; taciuto da ogni voce ma posato sui palmi delle nostre mani.
Il nostro amore era l’unica cosa. L’unica cosa.
Ho pensato per anni che fosse inutile dire che sarebbe stato per sempre. Ora, invece, è come se fosse la sola verità a cui sono capace di affidarmi.
Quindi stringo gli occhi, e tiro fuori quel poco di voce che riesco.
La mia cura su ogni cosa, e la tua cura su di me.
Dì solo amen, amore, presto.

Per sempre.
Carlo

Thursday, November 02, 2006

my sister

Non mi somiglia. Non siamo cresciuti insieme. Non ha nulla a che fare con la mia famiglia. Non lo conosco da più di sei mesi. Questo, per chiunque altro dotato di normale perspicacia, lo renderebbe un conoscente; o appena un amico, uno di quelli che guardi ancora con una certa diffidenza.
Eppure.
Quando vai via di casa presto, e ti rendi conto che è passato il tempo in cui tu eri solo un figlio desideroso di cure e premure, il significato di famiglia cambia. Scopri che sei tu a dover rassicurare una madre, a coinvolgere nel tuo mondo bislacco un padre distante. Che i tuoi fratelli, quelli di sangue per davvero, hanno la loro vita e le loro urgenze. Così, nella tua casa alla fine del loro mondo, sei costretto a mordere l’affetto altrove, ed è lì che altri fratelli e sorelle si siederanno alla tua tavola.
Ed è per questo che Matteo oggi è uno “di famiglia”. Pur non sapendo quali vergognosi pantaloni portasse al liceo, quanto imbarazzante sia stato il suo bulbo pilifero quando poteva ancora vantarne uno, e quante paure abbia scavalcato nei suoi anni di attese e desideri. Oggi di fonte a me c’è solo quello che mi riguarda…. Una sorella. My sister. Così, quando soffro per qualche stupida ragione, ho il suo sacco di parole e abbracci da slacciare.
La mia sister ascolta tanta bella musica; mia sister ha la fissa di andare in palestra, e fa un lavoro strano, che per tagliare corto potrei dirvi che ha a che fare con la pubblicità… la mia sister ha gli occhi di ghiaccio e ha un accento veneto che gli correggerei a suon di sganassoni… ma tant’è!
Mia sorella è proprio una forza, è bella e qualche volta fa la civetta (potrei dire scaldacazzi, ma so che si offende). Beve la sambuca illudendosi che la sua vita migliori, come tutte le alcoliste. Ma di anonimo lui non ha nulla… la mia sister è speciale.
La mia sister c’è sempre… e quando lo chiamo mi dice che non lo disturbo...mai. So bene che mente, ma è troppo carino per dire il contrario.
Adesso si è anche mezzo innamorato.. e io dico che sono contento per lui. Certo, per me che annego nella filologia del definire il mio rapporto con il “cagone”, non sarà facile quando a pranzo, uno di questi giorni, la mia sister mi mostrerà l’anulare e mi dirà: mi sono fidanzato! Io farò finta di commuovermi, quando in realtà piangerò per le mie umane disgrazie. E su quell’altare ci salirò anche io, al suo fianco per sorreggerlo nel momento del sì, quando sarà. Gli ho già spiegato che il color lavanda non mi pare indicato per agghindare noi damigelle. Ma considerando il piccolo dettaglio che la mia sister è pure un filo daltonica, penso che sono cazzi amarissimi… perché magari non sarò color lavanda… ma neppure un bell’arancione cangiante mi farebbe sentire a mio agio, ai piedi della croce. Sarebbe come gridare la mia dubbia moralità alle porte del regno dei cieli.

Matteo,
You are my sister And I love you
May all of your dreams come true

Sunday, October 29, 2006

Hey

Era l’ora in cui in città si riscaldano i portici, e iniziano a fiammeggiare le feste. L’ora in cui passano gli ultimi autobus, e i ristoranti iniziano a portare i conti agli ultimi tavoli. La notte colava come acqua leggera e bianca; un giro di perle dell’ultimo venerdì. Ogni cosa era sfumata nei propri argini. Io attraversavo la strada, per il mio ultimo autobus, verso casa di Lui.
Le ruote di una bicicletta bianca rigavano l’asfalto umido, evitando la scia delle macchine che scivolavano accanto.
The crash-boy. Non Lui, ma qualcun’ altro. Eccolo lì, che mi dice hey, raggiungendo il mio ultimo passo sulle strisce pedonali. Eccolo mentre accosta la sua bici al bordo della strada, scende dal sellino e si bagna l’orlo dei jeans su una ruota, mentre il pedale gira in fretta, senza un motivo.
L’altro, dunque. Un’immagine che in autunno non riconosco. Mi piaceva ricordarlo vestito con una sola maglietta a righe e i braghini corti, mentre faceva oscillare sopra il mio naso scottato due birre gelate, comprate dal pakistano sotto casa mia, prima di infilarsi nel mio letto, al caldo di luglio.
Lui che mi legava la lingua alle mani. Che mi zittiva con un solo fiato sul collo.
Ora lo vedo con la sciarpa leggera e la giacca di velluto. Ma lo riconosco immediatamente, da quel suo hey.
Come nelle palle di vetro, che quando si agitano scende la neve sugli alberi di natale, o su Westminter abbey, così capovolto sapevo che, dopo pochi secondi di testa all’ingiù, avrei scoperto l’effetto di quel gesto: cosa si preparava a piovere dal cielo.
Ed è stato come tirarsi un lenzuolo fino alla testa e perdercisi sotto, e odorare la sua saliva alla caramella sui miei baffi. Molti amori si asciugano sulla pelle, altri bruciano come il sole che si poggia sulle spalle. Lui è l’ultima supernova che ricordi di aver perso, in un silenzioso stupore.
- Chiamami, mi farebbe piacere rivederti.
E il prode destriero a due ruote lo ha riacchiappato in un attimo, dondolandolo sul bagnato della strada, tirandosi dietro anche le sue parole, come un aquilone.
Il tredici dell’ultima corsa mi si è fermato davanti. Ha aperto le porte e io sono stato l’ultimo a salire sopra. Come dovessi convincermi della nuova destinazione. Lo confesso: è stato un viaggio lungo, ma prima che prenotassi la mia fermata, per scendere un paio di chilometri oltre la mia faticosa partenza, avevo già deciso.
Restituirò su due palmi di mani quello stesso silenzio.
Non è l’onestà che brilla sulle ali degli angeli cherubini. E le stelle, quelle vere, non si perdono senza fare rumore, senza che ogni dieci di agosto qualche bambino indichi il cielo, sorprendendosi per lo spettacolo al buio.

Thursday, October 26, 2006

Istantanee al filo

Stasera, in un cinema del centro, che avrei voluto descrivere come “fumoso” (se vivessimo negli anni cinquanta) ho visto un film.
“Fur”, viaggio immaginifico sulla vita di una grande fotografa Diane Arbus, per la regia di Steven Shainberg. Una splendida Nicole Kidman, che ha impresso sulla superficie della tela bianca, la sua proiezione di grande respiro. Non credo si essere nato per censire, o esprimere pareri critici, di spessore. Non come il mio caro divertente colto amico sister Matt cornflakesboy ( blog del quale vi caldeggio attenzione). Quando si esce dal cinema, bisognerebbe smettere di pensare al film appena visto e fare altro. Sarà solo il tempo del dopo, a dimostrare il valore di quella pellicola, a seconda di quante e quali cose saliranno a galla. In maniera inaspettata. Sul pelo dell’acqua della mia attenzione, io rivedo già una serie di fotogrammi, che mi riguardano molto.
Il modo in cui si dimostra il talento della fotografa Arbus, nel cogliere dettagli nascosti, gesti quotidiani che la sua percezione percepisce come probabili focus della sua arte. Movimenti della vita che la circonda, e il suo modo di dichiararne possesso immediato.
Per chi scrive, o desidera farlo, e si misura col proprio destino, domandandosi quanto sia scelto o offerto, succede così. Forse è la serratura attraverso la quale si spia il proprio sé, artista. Accedere dalla normalità, dalla vita ormai invisibile, alla materia viva. A me, per esempio, è sempre successo di considerare ciò che mi accade, non come una normale casualità, non come si inciampa al bordo di una strada imperfetta. Ma una serie di elementi da raccontare, sull’ordine dei quali riflettere. Parlo di incontri sorprendenti, di parole udite per sbaglio, di aneddoti imbarazzanti, dello strano rapporto incestuoso tra il tempo e il caso. E arrivo al rendermi conto di quante cose colpiscano la mia attenzione, come istantanee appese al filo teso, di fronte ai miei occhi attenti: una scarpa slacciata, una poltrona bucata, di cui qualcuno si è disfatto, abbandonandola per strada; una sciarpa dimenticata su una panchina, una musica che scappa da una finestra socchiusa, e la luce di una cucina, accesa a notte fonda, in una delle case di fronte alle mie finestre. E così mi immagino le parole, piuttosto che il silenzio che scorre nelle vene di quei momenti che mi vogliono come spettatore. I pensieri di chi mi ha regalato quell’istante, forse prima di fuggire ai proprio segreti.
Non so spiegare come mi sento, mentre ritaglio da uno solo di questi dettagli improvvisi, il mio desiderio. Quella speciale tensione, oramai vecchia amica, che mi trascina, e mi convince al raccontare. Al nascondermi dentro una storia che scrivo.

Non dirà mai

Lui non dirà: “ti amo”.
Non lo ha mai detto, e sostiene di essere sicuro che non lo dirà mai.
Io e lui sul divano giallo di casa mia, le nostre scarpe sul tappeto a righe, e le sue parole dai contorni bel tracciati, senza sbaffi d’inchiostro.
Ci penso da ieri, da quando mi ha confessato questa sua rinuncia al verbo d’amore per eccellenza. Fra le dichiarazioni possibili, questa è la più comune, la più abusata, la più attesa. Penso a quanto la si riesca a sprecare, a tradire, a dimenticare. Due parole, perfino corte, quasi quanto preposizioni articolate. Ma che nascondono benissimo le scuse per le assenze degli amanti distratti, e le bugie degli amanti mediocri; neanche fosse una coperta in trincea.
Dunque: penso al tramonto perfetto, in riva al mare, mentre la sera d’estate cala intorno… io e lui forse, magari. Io e lui muti peggio dei pesci che vennero a galla per vedere la palla di pelle etc etc.
Penso agli abbracci dopo una lite, penso al respiro affannato dopo la paura di perdere l’altro. Nessuna parola gridata sul presunto epilogo, nessuna promessa.
Sono d’accordo con chi sostiene che i fatti valgano più di mille parole. Dimostrare l’amore, l’affetto, la cura per l’altro, ammorbidisce le volontà, stringe i nodi che tengono legate due persone. Ma io, che sono cresciuto con i telefilm americani, sotto l’albero di natale, in mezzo ai pacchetti, vorrei riconoscere il SUO regalo per quella frase, per quel modo di riconoscersi subito, per quel filo che due parole corte riescono ad estendere, nonostante le distanze.
Penso ai miei genitori e credo di poter dirvi che, se sono qui, se sono nato, è anche grazie a quelle frasi che da ragazzi mio padre avrà detto all’orecchio di mia madre, mentre giravano il mondo in seicento bianca.
Posso rinunciarci?

Tuesday, October 24, 2006

Voce del verbo...

Frequentare: incontrare spesso determinate persone; ritrovarsi frequentemente con qualcuno: frequentare gli amici, cattive compagnie | (fig.) studiare, leggere assiduamente: frequentare i classici ||| frequentarsi v. rifl. rec. vedersi, incontrarsi spesso: due amici che non si frequentano più.


Sin da piccolo, quando voglio andare in fondo ai significati delle cose, mi affido al vocabolario. Con la speranza, forse, che le definizioni mi chiariscano una volta per tutte quale sia la reale destinazione delle azioni che mi riguardano. Così “frequentare” oggi diventa il mio interesse. E mi rendo conto di come questa voce nello specifico, infinita o riflessiva che sia, mi sta stretta come un paio di jeans lavati a novanta gradi.
Lui mi dice: ci stiamo frequentando! E io penso… ‘spetta che guardo nel dizionario! Lo so, è paradossale, ma è sempre meglio di far finta di aver capito.
Lui, è uno di quei lui, che sembra abbia infinite dita della mano dietro le quali nascondersi. Lui è uno di quei lui che certamente ha un nome proprio, ma che eviterò di scrivere. Ergo: lui sarà solo lui, o altrimenti detto… “ il cagone”.
Se penso al “ritrovarsi frequentemente”, mi viene in mente che allora frequento anche il mio portiere? Beh, mi capita di ritrovarlo al supermercato dietro casa, davanti al banco salumi molto spesso! Così come mi capita di frequentare anche la postina, che ritrovo sovente nell’atrio d’ingresso del mio palazzo! ( e io che pensavo di avere una vita sociale contenuta… adesso mi sento un poligamo fedifrago da gogna).
Frequentare amici o cattive compagnie? Mi piacerebbe braccare il cagone e chiedergli quale di questi due paradigmi crede sia più indicato per noi due. In ogni caso sfida la mia furia che minaccia percosse, senza indugio!
Da questa frettolosa speculazione necessaria mi viene in mente una domanda da porvi: quante volte ci consoliamo dietro nomi corti per estensioni di rapporto delle quali abbiamo paura? Quanto spesso succede che si abbia timore di dare il vero nome alle cose? La lingua di cui ci serviamo, e le sue definizioni, diventano davvero un legame, un modo di precisare l’idea che abbiamo dell’altro e della nostra volontà di tenercelo stretto?
La lingua non ha mai nessun dubbio? Nessuna soggettiva incertezza?
E in fondo: serve davvero?
Ti frequento, esco con te, ti vedo… evidentemente vie di mezzo di una linea tesa fra due punti: il non conoscersi e il promettersi ogni cosa. A me viene voglia di intenderlo come un percorso, come una traiettoria che valga la pena seguire. Il cagone fa finta di capire. Magari cerca ogni mio singolo termine sul suo dizionario. Prima parola da cercare:


Cagone: tu.
(chissà che faccia ha fatto!)

Saturday, October 21, 2006

Becomin' famous

Vorrei conoscere gli autori di questo telefilm che mi sono abituato a chiamare “la mia vita”. Potrebbero spiegarmi perché non ci sono mai pause pubblicitarie, da permettermi almeno di andare di corsa in bagno a far pipì.
Alecs andros… in greco significa più o meno: l’uomo che viene prima. E direi che non è una gran bella predestinazione. Mi sono convinto che in fondo, traslando, potrei intendere la cosa in molte maniere, del tutto consolanti. Ma non è stato affatto facile.
Sono schiavo delle mie sigarette, fumate tutte troppo in fretta; dei miei caffè cortissimi, tirati giù senza troppi complimenti; della musica suonata forte; dei libri che ho già letto e che avrei voluto scrivere; di tutti gli altri libri sul pavimento di casa mia, in attesa di essere letti, come fosse il futuro a promettersi a loro.
Nascere con il mare davanti agli occhi, ti fa sembrare il resto del mondo una terra di conquista. E quante cose avrei da dire su queste gesta e tutte le improbabili traiettorie. A volte non proprio dritte. La mia corsia, nella fattispecie, drizzandola qua e là, mi ha portato a Bologna diversi anni fa. Ed è così bello vederla avvolta nella nebbia, da dietro i vetri di casa mia. Così che il mare diventi l’unica nostalgia che ricordi volentieri.
Io feticista del verbo sin dal primo vagito, conservo ogni cosa abbia visto e trattenuto nei pugni, fino ad oggi. Un po’ come succede a chiunque. Niente di speciale.
Il primo giorno in ogni casa dove abbia abitato, così come l’ultimo, chiudendomi ogni singola porta alle spalle. Come l’amore, che non è mai mancato all’appello. E oggi, consumo il mio tempo sulle carte di un libro che prima o poi trascinerò fino alla fine, ritrovandomi per le mani una storia che non sia la mia, ma che lo sia come nessun’altra.
Dei miei amici parlerò, come esempi da non seguire se non in casi di pura emergenza. Delle domeniche perse a guardare il soffitto per qualche pensiero storto, difficile da sciogliere. Del cioccolato fondente che cola, goloso come le notti da scaldare.
E di tutto quello che succede, come il buco con la menta tutta intorno.
- Non tutto quello che si pensa si può dire, ricordatelo….- mi disse la mamma, una volta.
Ed è da allora che penso, ardentemente:
- Quisquiglie!!