Sunday, October 29, 2006

Hey

Era l’ora in cui in città si riscaldano i portici, e iniziano a fiammeggiare le feste. L’ora in cui passano gli ultimi autobus, e i ristoranti iniziano a portare i conti agli ultimi tavoli. La notte colava come acqua leggera e bianca; un giro di perle dell’ultimo venerdì. Ogni cosa era sfumata nei propri argini. Io attraversavo la strada, per il mio ultimo autobus, verso casa di Lui.
Le ruote di una bicicletta bianca rigavano l’asfalto umido, evitando la scia delle macchine che scivolavano accanto.
The crash-boy. Non Lui, ma qualcun’ altro. Eccolo lì, che mi dice hey, raggiungendo il mio ultimo passo sulle strisce pedonali. Eccolo mentre accosta la sua bici al bordo della strada, scende dal sellino e si bagna l’orlo dei jeans su una ruota, mentre il pedale gira in fretta, senza un motivo.
L’altro, dunque. Un’immagine che in autunno non riconosco. Mi piaceva ricordarlo vestito con una sola maglietta a righe e i braghini corti, mentre faceva oscillare sopra il mio naso scottato due birre gelate, comprate dal pakistano sotto casa mia, prima di infilarsi nel mio letto, al caldo di luglio.
Lui che mi legava la lingua alle mani. Che mi zittiva con un solo fiato sul collo.
Ora lo vedo con la sciarpa leggera e la giacca di velluto. Ma lo riconosco immediatamente, da quel suo hey.
Come nelle palle di vetro, che quando si agitano scende la neve sugli alberi di natale, o su Westminter abbey, così capovolto sapevo che, dopo pochi secondi di testa all’ingiù, avrei scoperto l’effetto di quel gesto: cosa si preparava a piovere dal cielo.
Ed è stato come tirarsi un lenzuolo fino alla testa e perdercisi sotto, e odorare la sua saliva alla caramella sui miei baffi. Molti amori si asciugano sulla pelle, altri bruciano come il sole che si poggia sulle spalle. Lui è l’ultima supernova che ricordi di aver perso, in un silenzioso stupore.
- Chiamami, mi farebbe piacere rivederti.
E il prode destriero a due ruote lo ha riacchiappato in un attimo, dondolandolo sul bagnato della strada, tirandosi dietro anche le sue parole, come un aquilone.
Il tredici dell’ultima corsa mi si è fermato davanti. Ha aperto le porte e io sono stato l’ultimo a salire sopra. Come dovessi convincermi della nuova destinazione. Lo confesso: è stato un viaggio lungo, ma prima che prenotassi la mia fermata, per scendere un paio di chilometri oltre la mia faticosa partenza, avevo già deciso.
Restituirò su due palmi di mani quello stesso silenzio.
Non è l’onestà che brilla sulle ali degli angeli cherubini. E le stelle, quelle vere, non si perdono senza fare rumore, senza che ogni dieci di agosto qualche bambino indichi il cielo, sorprendendosi per lo spettacolo al buio.

Thursday, October 26, 2006

Istantanee al filo

Stasera, in un cinema del centro, che avrei voluto descrivere come “fumoso” (se vivessimo negli anni cinquanta) ho visto un film.
“Fur”, viaggio immaginifico sulla vita di una grande fotografa Diane Arbus, per la regia di Steven Shainberg. Una splendida Nicole Kidman, che ha impresso sulla superficie della tela bianca, la sua proiezione di grande respiro. Non credo si essere nato per censire, o esprimere pareri critici, di spessore. Non come il mio caro divertente colto amico sister Matt cornflakesboy ( blog del quale vi caldeggio attenzione). Quando si esce dal cinema, bisognerebbe smettere di pensare al film appena visto e fare altro. Sarà solo il tempo del dopo, a dimostrare il valore di quella pellicola, a seconda di quante e quali cose saliranno a galla. In maniera inaspettata. Sul pelo dell’acqua della mia attenzione, io rivedo già una serie di fotogrammi, che mi riguardano molto.
Il modo in cui si dimostra il talento della fotografa Arbus, nel cogliere dettagli nascosti, gesti quotidiani che la sua percezione percepisce come probabili focus della sua arte. Movimenti della vita che la circonda, e il suo modo di dichiararne possesso immediato.
Per chi scrive, o desidera farlo, e si misura col proprio destino, domandandosi quanto sia scelto o offerto, succede così. Forse è la serratura attraverso la quale si spia il proprio sé, artista. Accedere dalla normalità, dalla vita ormai invisibile, alla materia viva. A me, per esempio, è sempre successo di considerare ciò che mi accade, non come una normale casualità, non come si inciampa al bordo di una strada imperfetta. Ma una serie di elementi da raccontare, sull’ordine dei quali riflettere. Parlo di incontri sorprendenti, di parole udite per sbaglio, di aneddoti imbarazzanti, dello strano rapporto incestuoso tra il tempo e il caso. E arrivo al rendermi conto di quante cose colpiscano la mia attenzione, come istantanee appese al filo teso, di fronte ai miei occhi attenti: una scarpa slacciata, una poltrona bucata, di cui qualcuno si è disfatto, abbandonandola per strada; una sciarpa dimenticata su una panchina, una musica che scappa da una finestra socchiusa, e la luce di una cucina, accesa a notte fonda, in una delle case di fronte alle mie finestre. E così mi immagino le parole, piuttosto che il silenzio che scorre nelle vene di quei momenti che mi vogliono come spettatore. I pensieri di chi mi ha regalato quell’istante, forse prima di fuggire ai proprio segreti.
Non so spiegare come mi sento, mentre ritaglio da uno solo di questi dettagli improvvisi, il mio desiderio. Quella speciale tensione, oramai vecchia amica, che mi trascina, e mi convince al raccontare. Al nascondermi dentro una storia che scrivo.

Non dirà mai

Lui non dirà: “ti amo”.
Non lo ha mai detto, e sostiene di essere sicuro che non lo dirà mai.
Io e lui sul divano giallo di casa mia, le nostre scarpe sul tappeto a righe, e le sue parole dai contorni bel tracciati, senza sbaffi d’inchiostro.
Ci penso da ieri, da quando mi ha confessato questa sua rinuncia al verbo d’amore per eccellenza. Fra le dichiarazioni possibili, questa è la più comune, la più abusata, la più attesa. Penso a quanto la si riesca a sprecare, a tradire, a dimenticare. Due parole, perfino corte, quasi quanto preposizioni articolate. Ma che nascondono benissimo le scuse per le assenze degli amanti distratti, e le bugie degli amanti mediocri; neanche fosse una coperta in trincea.
Dunque: penso al tramonto perfetto, in riva al mare, mentre la sera d’estate cala intorno… io e lui forse, magari. Io e lui muti peggio dei pesci che vennero a galla per vedere la palla di pelle etc etc.
Penso agli abbracci dopo una lite, penso al respiro affannato dopo la paura di perdere l’altro. Nessuna parola gridata sul presunto epilogo, nessuna promessa.
Sono d’accordo con chi sostiene che i fatti valgano più di mille parole. Dimostrare l’amore, l’affetto, la cura per l’altro, ammorbidisce le volontà, stringe i nodi che tengono legate due persone. Ma io, che sono cresciuto con i telefilm americani, sotto l’albero di natale, in mezzo ai pacchetti, vorrei riconoscere il SUO regalo per quella frase, per quel modo di riconoscersi subito, per quel filo che due parole corte riescono ad estendere, nonostante le distanze.
Penso ai miei genitori e credo di poter dirvi che, se sono qui, se sono nato, è anche grazie a quelle frasi che da ragazzi mio padre avrà detto all’orecchio di mia madre, mentre giravano il mondo in seicento bianca.
Posso rinunciarci?

Tuesday, October 24, 2006

Voce del verbo...

Frequentare: incontrare spesso determinate persone; ritrovarsi frequentemente con qualcuno: frequentare gli amici, cattive compagnie | (fig.) studiare, leggere assiduamente: frequentare i classici ||| frequentarsi v. rifl. rec. vedersi, incontrarsi spesso: due amici che non si frequentano più.


Sin da piccolo, quando voglio andare in fondo ai significati delle cose, mi affido al vocabolario. Con la speranza, forse, che le definizioni mi chiariscano una volta per tutte quale sia la reale destinazione delle azioni che mi riguardano. Così “frequentare” oggi diventa il mio interesse. E mi rendo conto di come questa voce nello specifico, infinita o riflessiva che sia, mi sta stretta come un paio di jeans lavati a novanta gradi.
Lui mi dice: ci stiamo frequentando! E io penso… ‘spetta che guardo nel dizionario! Lo so, è paradossale, ma è sempre meglio di far finta di aver capito.
Lui, è uno di quei lui, che sembra abbia infinite dita della mano dietro le quali nascondersi. Lui è uno di quei lui che certamente ha un nome proprio, ma che eviterò di scrivere. Ergo: lui sarà solo lui, o altrimenti detto… “ il cagone”.
Se penso al “ritrovarsi frequentemente”, mi viene in mente che allora frequento anche il mio portiere? Beh, mi capita di ritrovarlo al supermercato dietro casa, davanti al banco salumi molto spesso! Così come mi capita di frequentare anche la postina, che ritrovo sovente nell’atrio d’ingresso del mio palazzo! ( e io che pensavo di avere una vita sociale contenuta… adesso mi sento un poligamo fedifrago da gogna).
Frequentare amici o cattive compagnie? Mi piacerebbe braccare il cagone e chiedergli quale di questi due paradigmi crede sia più indicato per noi due. In ogni caso sfida la mia furia che minaccia percosse, senza indugio!
Da questa frettolosa speculazione necessaria mi viene in mente una domanda da porvi: quante volte ci consoliamo dietro nomi corti per estensioni di rapporto delle quali abbiamo paura? Quanto spesso succede che si abbia timore di dare il vero nome alle cose? La lingua di cui ci serviamo, e le sue definizioni, diventano davvero un legame, un modo di precisare l’idea che abbiamo dell’altro e della nostra volontà di tenercelo stretto?
La lingua non ha mai nessun dubbio? Nessuna soggettiva incertezza?
E in fondo: serve davvero?
Ti frequento, esco con te, ti vedo… evidentemente vie di mezzo di una linea tesa fra due punti: il non conoscersi e il promettersi ogni cosa. A me viene voglia di intenderlo come un percorso, come una traiettoria che valga la pena seguire. Il cagone fa finta di capire. Magari cerca ogni mio singolo termine sul suo dizionario. Prima parola da cercare:


Cagone: tu.
(chissà che faccia ha fatto!)

Saturday, October 21, 2006

Becomin' famous

Vorrei conoscere gli autori di questo telefilm che mi sono abituato a chiamare “la mia vita”. Potrebbero spiegarmi perché non ci sono mai pause pubblicitarie, da permettermi almeno di andare di corsa in bagno a far pipì.
Alecs andros… in greco significa più o meno: l’uomo che viene prima. E direi che non è una gran bella predestinazione. Mi sono convinto che in fondo, traslando, potrei intendere la cosa in molte maniere, del tutto consolanti. Ma non è stato affatto facile.
Sono schiavo delle mie sigarette, fumate tutte troppo in fretta; dei miei caffè cortissimi, tirati giù senza troppi complimenti; della musica suonata forte; dei libri che ho già letto e che avrei voluto scrivere; di tutti gli altri libri sul pavimento di casa mia, in attesa di essere letti, come fosse il futuro a promettersi a loro.
Nascere con il mare davanti agli occhi, ti fa sembrare il resto del mondo una terra di conquista. E quante cose avrei da dire su queste gesta e tutte le improbabili traiettorie. A volte non proprio dritte. La mia corsia, nella fattispecie, drizzandola qua e là, mi ha portato a Bologna diversi anni fa. Ed è così bello vederla avvolta nella nebbia, da dietro i vetri di casa mia. Così che il mare diventi l’unica nostalgia che ricordi volentieri.
Io feticista del verbo sin dal primo vagito, conservo ogni cosa abbia visto e trattenuto nei pugni, fino ad oggi. Un po’ come succede a chiunque. Niente di speciale.
Il primo giorno in ogni casa dove abbia abitato, così come l’ultimo, chiudendomi ogni singola porta alle spalle. Come l’amore, che non è mai mancato all’appello. E oggi, consumo il mio tempo sulle carte di un libro che prima o poi trascinerò fino alla fine, ritrovandomi per le mani una storia che non sia la mia, ma che lo sia come nessun’altra.
Dei miei amici parlerò, come esempi da non seguire se non in casi di pura emergenza. Delle domeniche perse a guardare il soffitto per qualche pensiero storto, difficile da sciogliere. Del cioccolato fondente che cola, goloso come le notti da scaldare.
E di tutto quello che succede, come il buco con la menta tutta intorno.
- Non tutto quello che si pensa si può dire, ricordatelo….- mi disse la mamma, una volta.
Ed è da allora che penso, ardentemente:
- Quisquiglie!!