Tuesday, March 20, 2007

6


Sei.
Era caldo. E avevo una birra fra le mani. Un bicchiere di cartone che scivolava tra i palmi di mano, umidi. Sei mesi che sei qui, tra le mie cose.
In questo frattempo, i bambini di prima elementare hanno imparato a leggere, a scrivere e far di conto. Questo tempo li ha alfabetizzati, consegnando loro la possibilità di un futuro; glielo promette. Questo frattempo ha educato anche noi, a un tipo di alfabeto diverso, obliquo rispetto al solito ABC. Non penso sia poco. È tempo che è corso veloce su di noi, ma che a me è rimasto dentro. Ora che ci sei, non mi è mai sembrato scontato che mi stessi accanto, che mi sopportassi, e che allentassi il giogo delle tue resistenze, lasciandoti andare a me.
I miei occhi su di te hanno imparato a essere diversi; e a volte diversi sul mondo intero, proprio attraverso te. E per questo non ho parole che suonino più forte di un grazie.

Sei ancora la mia risata più bella.

Wednesday, March 14, 2007

Mi familia


Mi familia. Sconclusionata per volontà. Girotondo di anime in disordine.
Viviamo tutti, o quasi, in una piccola ombra del mondo. Le nostre case di legno tarlato, e televisioni piccolissime. Caffettiere annerite e tazzine sbeccate. Squat con addosso magliette a righe, orizzontali come i destini, e allstars color fruittella ai piedi. Amici del mio tempo, che ho cercato dietro gli angoli di ogni tragitto. Condividiamo lo stesso orizzonte. Le stesse belle speranze del giorno che sorge. Inermi, stesi sul parquet, in una sera qualunque; ci troverete lì, a sognare notti più morbide. Cresciuti in angoli diversi, dal mondo nascosti. Questo nostro chiostro è l’esatto altrove che abbiamo immaginato, progettando la fuga dai nidi materni.
La mia gente spera bene. E con l’amore ci proviamo. Concorrenti a staffetta, di un imprevisto percorso a ostacoli. Sigarette spente a ore profonde, di quel buio che ci spaventa. Che ci riguarda. E il cicaleccio di tutti i consigli da inzuppare nel tè. Sbricioliamo abbracci privati sopra qualche singhiozzo che dimenticheremo.
Ricordiamo invece il sapore della solitudine. Un sapore amaro sulla punta della lingua, per tutti gli anni in cui ci siamo mossi tra gli occhi chiusi degli altri.
Oggi è invincibile l’attenzione delle braccia tese oltre ogni delusione. Ed è famiglia, quella che vedrete sedersi a una tavola. È una famiglia quella che si riunisce attorno a un letto d’ospedale. È ancora una famiglia, quella che sventola un fazzoletto al binario del treno, prima di una partenza.
Nessuno di noi ha avuto fortune sfacciate, ma siamo miracolosamente in equilibrio. Ognuno di noi ha qualcosa da ingoiare, ancora. Ma siamo tutti sotto il sole, a goderci il nostro tempo da perdere.
La mia posse, segreta a un altro mondo, che ignora. La mia gang, che semplicemente conquista il terreno di un futuro già meritato.

Friday, March 09, 2007

Oltre il mio inverno


Scrivere di nuovo. Succede davvero. Come tornare a casa. E fermarmi un attimo. Guardare intorno, con le valigie ancora chiuse in un angolo.
Come state?
Le suole delle mie scarpe sono un poco consumate sul bordo. Ho camminato in tondo, chiudendo gli occhi per perdere l’orientamento, il senso del tempo. E ho fatto tardi.
Mi capita che, quando i miei pensieri sono in corto, ho paura di mettere per iscritto la mia vita. Che possa rimanere così aria, da respirare; ma che forse non esiste davvero. Nego a me stesso la verità, finché una parte di me non si ribella. Quindi sì: a chiunque me l’abbia chiesto, rispondo: ho avuto delle cose da sistemare, un viaggio da fare, sonno da perdere in lunghe notti. Da qualche parte ho letto che le vere distanze, i veri percorsi inerpicati, sono quelli che dividono le persone. Ho colmato quel vuoto, quei passi e la loro fatica.
Ed eccomi qui. Di nuovo.
Ma non come prima. Ho imparato qualcosa sul destino, sulle scelte, su quei brevi momenti in cui puoi decidere davvero. E la responsabilità è una brutta bestia, una maschera sfigurata che abbiamo dentro, una delle tante sembianze di noi che appare allo specchio di sorpresa. E il momento suggerisce il da farsi. La voce del grillo parlante… ovvero il desiderio che emerge sulla paura del fallimento.
E se fallissi? Se ci si sbaglia? Ci si può perdonare? Il fiato corto di una rincorsa alla perfezione, forsennata, cosa ci lascia? Noi, noi tutti, solitudini imperfette, facciamo quel che possiamo. E io posso fare quello che ho fatto. Rimanerti accanto, e cercare di essere il meglio. Ma se non posso, o non potrò, voglio una cazzo di consolazione, che mi asciughi le spalle dal peso.
Ho avuto il mio inverno, sotto questo strano sole caldo. Ho avuto il mio gelo, che sgocciola dai tetti.
E ora che sono a casa, non disferò le mie valigie. Dentro ci sono solo mille inutili coperte pesanti. E tu, mi hai promesso giorni da tropico.