Wednesday, November 29, 2006

Joan di Brooklyn

Yesterday:
Joan as policewoman. Live @ estragon. Ore dieci.

Ammiro Sister, che si sfila la cravatta, abbandona la giacca integerrima, in quattro nanosecondi. Perché quel cuore veneto è undergroung. Così una felpa grigia col cappuccio, una coppola nera, e una pin bianca sul bavero: Jesus saves. Sister mi somiglia, volente o nolente!
Io pullover da battaglia e timberland di ordinanza.
I paggetti perfetti per Joan, in esorbitante ritardo. Pazienza, perché almeno abbiamo bevuto una birra e pucciato chiacchiere nella schiuma.
Lei coi capelli appena phonati, un chiodino di pelle cucitole addosso e braghe cargo a tre quarti, con fibbie di pelle scura. Bellissima. La ragazza di Brooklyn, che si è presentata al poverissimo pubblico di Bo con un inchino, attenta a non versare il tè, dalla mug che teneva in mano. E per un attimo l’ho vista simile a tante altre ragazze di NYC, che camminano per strada in una mattina gelida, che stanno con un capellone che lavora in un negozio di musica, ma che nel frattempo spera di fondare una nuova band, per sfondare.
Joan, nel ruolo della poliziotta. Ci ha fatto entrare nel suo mondo di musica, come una che vuole, e non che deve solo perché davanti a lei ci sono persone che hanno pagato un biglietto. Lo ha fatto permettendoci quasi di spiarla, in due o tre tracce solo voce e piano. Per poi riempire l’aria di tamburi e elettricità misurata, col resto dei suoi musicisti, piuttosto validi. La sua voce, leggera o quasi sguaiata, pesante nei bassi e soffiata nelle preghiere. Graffiava comunque, perché mai casuale. Lei era dentro la sua musica, tanto da commuovere molti di noi (ok, anche me e sister… ma noi siamo gay, abbiamo sempre un’attenuante).
Poi, saprete bene che cornflakesboy, tornato dalla sua trasferta odierna di Roma, posterà qualcosa di molto tecnico, da vero esperto. Io non posso. Non alla mia sister. A ognuno il proprio ruolo. Lui informa e critica. Io vaneggio, e solo perché ero lì, a passare una serata in musica.


Però, da scrittore in progress, vi regalo qualche parola della brava e bella Joan, che ieri ci ha dato con la sua musica. Com’è che la definirebbe qualcuno? Rock jazz, perché a noi gli ibridi sono sempre piaciuti molto.lo

ng as you follow me this is w Strip me I’m already threadbare enough to see the mark of blueprint in my makeup… mapping the gost in me. (Show me the life)

Joan sarà oggi a Torino, poi a Reggio Emilia e infine a Roma. Come dire.... fate vobis.

Tuesday, November 28, 2006

Siamo due, che soltanto.

sms:
Pensavo che con te non mi annoio mai, che mi fai ridere (di me), e che divento quasi semplice. Come se tu stessi diventando le “soluzioni a pagina 84”. A.

E il vento sta cambiando. L’inverno si poggia sui tetti del mio piccolo mondo. Del mondo che vedo dalle mie larghe finestre. E un uomo soltanto sta diventando il solo.
Luca.
Perché il suo nome non è più un segreto, e sfido le scaramanzie della mia più pagana fifa.
È rimasto nella pancia, in un momento che passa piano, e che definirei sbagliato. Prova del fatto che ti può accadere di tutto, ma le cose decidono per loro conto. Finchè l’ultimo rimasto nella lista, da convincere. non sei proprio che tu.
Luca sta seduto con le gambe intrecciate alle mie, come due cime sulla zattera (divano giallo di casa mia). Luca aspetta un mio bacio, mentre lo guardo naso contro naso, in quei pochi centimetri di attesa che sospendo, per vedere i suoi occhi fermi su me, e le sue ciglia che si aprono sulle mie.
Luca ha visto il mio segno, la mia vera pelle sotto il pomposo costume di scena. E non si è mosso. Gli ho chiesto cosa lo trattenesse su quella zattera, da mesi ormai, e lui non ha risposto. Ha solo sorriso, guardandomi di sbieco.
Così, lui come cura, di una mia volontà precaria, funambola. E in silenzio, senza prometterci nulla, ci siamo fatti compagnia, fino ad allevare le parole, ancora talmente neonate.
E vagisce un suo messaggio, nel cuore di una notte qualunque, in cui mi confida, intimo, che non può più fare a meno di me.
Si pagano sempre momenti così, e in anticipo. Perché è valsa la confusione; è valso il vano tentativo di dirgli addio senza mai riuscirci; è valsa la pena di mettere in discussione tutto di lui, e prima ancora tutto di me.
Siamo rimasti sul divano giallo a due posti, mirando bene la deriva, e abbiamo continuato a tenerci compagnia.
Siamo due che si abbracciano, che si tengono a distanza, che si criticano, che si stanno aspettando agli angoli di due strade; due che si svegliano insieme col sorriso, due che si baciano e tirano tardissimo, due che fanno l’amore e poi gli tocca correre sotto la pioggia per non perdere l’inizio del film al cinema. Due che si studiano, imbracciando le armi; siamo due che hanno ancora paura.
E due che non vorrebbero mai smettere di sfottersi, per ogni cosa.
Solo due, che si tengono per mano, mentre dormono.


Morale: uno spazzolino da denti non si dimentica mai per caso. Se poi, quando a dimenticarlo sei tu e il bagno è il mio, ancora di meno. Non mi freghi, sappilo!

Wednesday, November 22, 2006

Piroette

Corro e rincorro, inspiro ed espiro. Scintille e fuochi al bordo del cammino. Setacci e filtri, ma spremo e verso fuori dal bordo, tutto di me. Senza residui o a pugni chiusi, premo i piedi o li sollevo da terra, quando perdo l’equilibrio; quando mi lascio andare all’indietro sul letto, con le braccia sollevate.
E si fa buio senza che me ne accorga, o aspetto l’alba alzato, quando la luce è argento, quando la città sbadiglia e spegne la sveglia. Io lì, con le mani sugli occhi, e i vetri delle mie finestre appannati. E conto le sigarette che mi sono rimaste.
E il cursore nero delle pagine word che scivola veloce, da sinistra a destra, perdendo le briciole di Pollicino, che difendo dai passerotti in agguato. Le mie parole, che sfilo da me come lacci per le scarpe, come cinture di tela colorate.
Vi svelo però un segreto: io non scrivo su un blog per ricevere onori e applausi. E quando capita che qualcuno mi faccia un complimento, io arrossisco. Spesso scrivo cose per qualcuno in particolare, e spendo riferimenti nascosti per qualcun altro. Posto per il bisogno, per l’urgenza di doverlo fare per me stesso. Ma voi, occhi attenti, avrete me, sempre. Ed è speciale quando le mie parole tirano le vostre, poi impresse in polaroid che mi lasciate scivolare sotto la porta. La vostra vita a me aliena, perché lontana. La vostra voce che mi immagino e basta. I vostri amori e le vostre nostalgie che mi commuovono e, solo molto raramente, mi ammutoliscono. In un canone di dita che ticchettano, che riempiono i vuoti delle nostre strade, sempre troppo zitte, sempre troppo assorte nei propri affari. Una magia di solitudini imperfette. In una quadriglia di pugni leggeri, che bussano agli stipiti delle nostre porte.
E vi lascio alla vostra vita, da raccontarmi, mentre raddrizzo le curve a gomito della mia. Occhi attenti sempre. Uomini quarantenni, io vi spio, dalla mia tenera età che brandisco come alibi, per il mio tempo che perdo volentieri, per questa piroette che mi sono concesso.
Abbiate pazienza.

Monday, November 20, 2006

Eppure (sentire).mp3

Eppure è una parola che mi riguarda, e che mi somiglia. Parla di me, e della mia inesauribile tentazione al nonostante tutto. Una boa rossa sul pelo dell’acqua, tenuta a vista dal mio pensiero, mentre nuota affannato.
È utile per tirare fiato, e per ricordarsi che si perdono possibili risposte ovunque.
E io e te siamo pieni di eppure. Giriamoci attorno finché non ti stanchi.
Nelle nostre mezze parole, nei nostri occhi da nascondere, nei sorrisi che sarebbe meglio di no.
Un senso di te.
Ci sarà, se resisti ai miei tentativi di ammutinamento, alle mie speranze di sfebbrare, e riportare la mia attenzione fuori dalla tua portata. Tu che mi distrai con un solo colpo di tosse.
Mi avvicino a te in punta di piedi. Ti annuso solo un po’. Ricordo come sia stato perdermi, mentre ti scivolavo in bocca.
Oggi siamo leggeri in mezzo agli altri, nella nostra apparente noncuranza.
Eppure.
Le tue mani su per la schiena, o strette al mio palmo. E lo sguardo che non reggi, mentre le ciglia si piegano per non rendere quel momento un’ennesima attesa. Eppure ho aspettato che mi massacrassi, che mi ferissi e allontanassi, come mi avevi promesso.
Ma ho scoperto che non serve, e non basterebbe mai.
Il senso che ha questo mio sentire sarà pure invisibile agli occhi della ragione. Che si nasconda pure, ma io non sospetto mai la sua assenza. Le mie domande gli faranno anche ombra, ma lo sento respirare al buio.
E non volevo scrivere di te, né pensavo di riuscire a farlo per tutte queste righe. Saranno sempre troppe per quel niente che da allora mi chiedi di darti.
Ti lascio una canzone galleggiare nel cerchio degli eppure. Se capirai che è opera mia, non dire una parola.
Appoggiatici piuttosto.

Bobby Jonathan e Clare

“Restiamo un po’ a guardare le montagne, poi ci giriamo verso la casa. È talmente vecchia che perfino gli spiriti si sono fusi alle pareti. La si sente abitare non dall’infelicità personale di qualcuno ma dalle esistenze di dieci generazioni, dei loro pasti e delle loro liti, delle nascite e dei loro ultimi respiri”

A loro è sembrata così, quella casa alla fine del mondo.
E io li ho invidiati, non saprei spiegare quanto. Perché avevano in dono qualcosa che un’amica, una volta, ha chiamato nel modo più giusto: il loro amore disordinato. Ci penso da ormai troppo tempo. Non avere paradigmi ma dare l’accesso a qualcosa di sconosciuto. Come una mano che entra dentro la sabbia asciutta, e stringe le parti più nascoste di te. Bobby, Jonathan e Clare, sono diventati un nuovo esempio, che conserva pentimenti e l’ombra del fallimento. Ma quei giorni sono i più belli del libro. Quando Clare dice:
-Cammino per la casa e ho come la sensazione di trovarmi sull’ala di un aereo. A diecimila metri. Vorrei che a te e Jonathan sembrasse strano come a me”.
Era la loro rivincita, la rivalsa di tutte le notti della loro vita precedente quel momento. Era il loro segreto miscuglio di amicizia e amore, di emotività spremuta.
Michael Cunningham mi ha insegnato così tanto, della scrittura, e della spettinata immaginazione di cui è capace. Ma ha fatto qualcosa in più. Ha scritto di tutti noi, e delle nostre possibilità di riuscita. Di questo futuro che non conosciamo, che possiamo inventarci in una menzogna, che ha comunque la vita breve di una qualunque verità. Perché Clare pensava che sarebbe rimasta, perché Bobby credeva che Jonathan si sarebbe salvato alla fine, e che quelle macchie erano solo dei lividi innocenti, e che tutto sarebbe rimasto immobile.
Ho scoperto, attraverso questo libro che non è solo un libro ma una vera e propria storia, che esiste sempre un altrove, oltre ciò che possiamo immaginare per noi stessi; e che quell’altrove può essere addirittura meglio.

“Così restammo seduti a cantare su quel terrazzo finchè non venne davvero buio e intorno a noi la città fiammeggiò di dieci milioni di party”

Oggi sposi

Anche io ho avuto un primo amore. Uno di quelli pazzeschi, che levano il fiato; che ti fanno quasi illudere che sarà sempre così. Ero un piccolo uomo, con un tale prurito alle mani. Lui sarebbe stato colui al quale avrei destinato pensieri laconici e densi per una decina d’anni. E dal nostro primo incontro lo avrei dovuto sospettare. Quel primo amore non si sarebbe asciugato facilmente. Così, in rincorse repentine, a dispetto dei miei successivi tentativi d’amore, a dispetto della distanza, ci siamo voluti bene sempre. E sempre, in qualche angolo del mondo, abbiamo trovato lenzuola da sgualcire per bene, commemorando.
Fino alla scorsa primavera, quando, mi ha comunicato che si sarebbe sposato col suo fidanzato. Lui, oramai, cittadino inglese, lo ha potuto fare. E io che mi illudevo che noi gay saremmo stati immuni, almeno, a questo strazio: una partecipazione di nozze che scivola sotto la porta, e che ti ammutolisce per giorni. Leggi i nomi sopra e squoti la testa. Ti senti l’escluso per eccellenza.
Al matrimonio poi non ci sono andato, sebbene meditassi di varcare l’improbabile navata vestito come Madonna in like a virgin o almeno come l’ultima Bertè (della serie: guardatemi, non sono affatto sana di mente), e gridare a squarciagola “sposa me sposa me sposa meeee”.

Saltiamo nel vuoto e arriviamo ai giorni nostri. Pronti? Ecco.
Il mio amico Umberto, spagnolo, qua in erasmus, mi racconta che il suo fidanzato madrileno gli ha chiesto di sposarlo. Io, ghiacciato in tutte le mie estremità, ho iniziato seriamente a pensare a questa cosa, tanto che sui matrimoni oggi scrivo, perché ho qualcosa da dire!
Tralasciando l’immagine di me che mi ritrovo un uomo in ginocchio, che mi chiede un Persempre, perché la cosa mi commuove al solo pensiero, ho una domanda!
È davvero possibile che la probabilità di un legame certificato, indiscutibilmente ufficiale, condizioni i desideri, le prospettive di un’intera generazione che cresce? In fondo noi, omosessuali da qualche lustro oramai, siamo stati abituati al sapere che, nel caso la cosa fosse andata proprio grassa, avremmo forse messo su casa (già fatto, già dato, grazie), ci saremmo forse presi insieme un cagnolino e quella sarebbe stata la “famiglia”. Per noi un eventuale legittimazione, sarebbe indispensabile per mille ragioni che prescindono dai sentimenti. Ma per i giovani gay, sapere che le loro possibilità comprendono una cosa così normale come il matrimonio, in che modo modifica le loro speranze sul futuro? È possibile che si sentano meno “diversi” di quanto ci siamo sentiti noi?
Perché noi tutti figli della televisione e dell’univoca rappresentazione di come si dovrebbe vivere per essere felici?
Ecco, poi penso seriamente a come mi piacerebbe promettere il mio per sempre finchè dura. E lo farei solo se credessi che quel “finchè dura” sia un modo per scongiurare le iettature. Vorrei i miei amici accanto, che giurassero di ricordarmi la gioia di quel giorno, anche quando le cose smetteranno di andare in maniera celeste. Vorrei che Lui si dedicasse le stesse attenzioni. E per me Dio non c’entra nulla. Scriverei di pugno quel che potrei promettergli. Non sarebbero frasi fatte, ma quel che sono sicuro di poter mantenere sulla linea di quel per sempre. Comprendendo anche l’inevitabile possibilità che in qualche giorno io lo detesti, non abbia neppure voglia di parlargli. Perché forse sposarsi non significa promettere all’altro una vita felice, ma una vita e basta!

Monday, November 13, 2006

Ma quest'anno sì

Burro sugli occhi, e bocche chiuse.
Arriva un post che non devo scrivere, ma che mi scivola via.
Tre giorni di tonsille come due pompelmi, valgono a conservare la voce per dire qualcosa. Prima di tutto vi do un odore però: sulle mani ho il profumo di mandarini, i primi di questo altro inverno, qua dietro. Shit I turn into my mother, ci manca solo che anche io dica come lei ogni anno: “Uhm che buon profumo di natale!”.
Ho deciso che quest’anno farò l’albero. Due anni fa me ne sono ben guardato, mentre mollavo il fidanzato storico. Mi pareva di cattivo gusto impacchettargli anche il biglietto per il non-ritorno, proprio affianco al carbone di tutte le befane del mondo, scese in picchiata sulle loro nimbus2000 per dirgli: non sei stato proprio buono eh!. L’anno scorso invece mi ero appena trasferito in questa mia piccola scatola di fiammiferi che ho l’ardire di chiamare “casa”. Ho ripiegato su un simbolo del natale; un addobbo astratto, così tanto che nessuno lo ha colto. NO, quest’anno voglio l’albero casa americana famiglia tutta riunita, diciamoci ailovviù!
Pensavo al bianco, alla neve, al color latte da farci tuffare un biscotto con la granella al cioccolato.
E che ci appendo al verde sintetico? Io direi prima di arrotolare le luci, di quella bella luce coscienza, niente pacchianate multicolor evviachesonogaytiè! Questo nuovo senno illuminerebbe gli amici, carissimi, appesi al gancetto. Vorrei vederli bene, soprattutto a natale. Perché è questo il periodo in cui chiunque vorrebbe avere tutti accanto, a bere ciobar e a dirsi le solite cattiverie tutto zucchero. Quelli nuovi di zecca, ma anche quelli vecchietti, quelli di sempre. Coi loro faccioni sorridenti, versione buonefeste. Poi un nastro argento, che li tiene stretti. Un bel nodo doppio, come fosse un regalo. Muschio da darsi i baci tutto gennaio. Io e Paky in realtà lo abbiamo fatto fino a giugno. Il rametto sopra la cucina era diventato un rachitico bastoncino, senza una foglia che una! Ma per un bacino sulle guance, ci si può dire una piccola bugia!
Sotto il mio albero so che ci sarà un ometto buffo, probabilmente con addosso il vestito da renna più chip che avrà trovato; una polpetta su due gambette, che mi chiama: “la mia velina!”, che si rulla una canna mentre mi sfotte per vedermi imbronciato. E fare la pace sotto natale è come avere un oro Saiwa e una marmellata zuegg… qualcosa di ovvio, insomma!
Ma vedo anche gocciolare sui vetri una piccola delizia, viziata e di vapore. Ci potrei disegnare un bello smile col dito. Due punti come occhi, e una curva all’insù. Per poi, ne avessi solo il coraggio, cancellare tutto con un palmo di mano, guardare fuori e dire:
- Oh, little polpet (polpettina insomma), cosa avrà chiesto quest’anno Paris Hilton a babbo Natale?

Thursday, November 09, 2006

Serrature

Una mattina di sole.
Ho aperto le finestre, e mi sono rimesso a letto. Ho quasi freddo, sotto le coperte. La città che mi cola attorno, scivolando nei rumori di chi vive troppo presto per me.
E tu che fai? Chissà se dormi ancora.
Chissà se hai già messo su un caffè, e agiti la testona mentre la musica suona forte in cucina.
Magari ti gratti il mento, come me. Magari hai messo in bocca una sigaretta, cercando un maledetto accendino che funzioni.
Hai visto fuori, quanta luce?
È così che succede che pensi a te. Mi immagino di vederti, di spiarti attraverso una serratura.
Ho tutte le tue parole scritte sulla mano, fino ai polsi. Quando le leggo mi rendo conto del loro senso. Una preghiera che assomiglia a una menzogna.
Ti vorrei gridare in faccia quanto mi fai incazzare, quando pensi di avere ragione su di me. Quando mi vendi le tue difese come fossero un verbo divino. Vorrei grattare con la spazzola di ferro tutta l’aria del mondo che lasci fra noi, e vederci vicini, con solo la verità.
Quella verità che ti è volata fuori dalla bocca, e che hai nascosto nelle tasche in fretta; per poi sperare che io non abbia fatto in tempo a vederla. Eppure.
Oltre la serratura stamattina ci sarai tu, seduto a pensare. Le tasche piene di cose non dette. E qualunque segreto che neghi al mio tempo.
Al di qua, invece, ci sarò io in silenzio. Contando i respiri.

Wednesday, November 08, 2006

Paky, mon amour.

Questa è una storia che mi piace raccontare.
Per anni è stato un amico di amici. E non mi stava neppure simpatico. Con quella sua arietta tutta spocchiosa, da chi tiene il mento sempre per aria. Solo molto tempo dopo avrei scoperto che quel naso tirato sopra ogni cosa non è altro che un modo per fiutare eventuale cibo!
Non ricordo il giorno in cui me lo presentarono, ma so che il mio giudizio da mannaia non fu per nulla clemente. Per lui fu la stessa cosa. Mi considerò uno da poco, un’isterica che sbraita per ogni non nulla (Beh, anche adesso a dirla tutta).
Poi, la vita a volte eh?
Quando ho lasciato lo storico fidanzato, dopo anni di convivenza, ho traslocato dall’altra parte del centro. Un viaggio che ho finto fosse estenuante. Non saranno neppure due chilometri in fondo. Ma almeno ho cambiato quartiere, pulendomi le piume da araba fenice. Di quel quartiere Paky è l’indiscussa regina. Matrona santificabile al mercato, con le sporte colme di parmigianini e la borsa del suo personal computer a tracolla.
Per quelle mie nuove strade, la mia vita ha incrociato la sua. Ed era inevitabile che fosse ammmmore. Preciso: non l’amore che leva le mutande o che fa nidiate le farfalle nello stomaco. Ma l’amore diverso, dell’estrema confidenza, della salvezza se tu ci sei, della consolazione del “non appena arrivi tu”.
Paky ha praticamente trent’anni. Lui sbatte i piedi, rendendosi alquanto ridicolo. Sostiene che siano solo e “appena” ventotto. Non sa che vale la pena approssimare per eccesso a volte. E lui, l’eccesso lo conosce bene. Ne è figlio. Di origini campane, come dire, non rinuncia alle sue radici. Da posa plastica di madre di Scampia, da guance sempre pronte a trasfigurare nella maschera della sceneggiata.
Paky è uno de core. E io quel cuore l’ho visto, tutto e per intero. So quanto vale e so come ti accoglie. Entrato ad honoris causa tra le starlette della comunità bear di quel di Bo, fa innamorare tutti. Tra le pagine di quei profili si sente: “magra”. Dice di avere la stessa pancia che aveva Demi Moore incinta, fotografata dalla Leibovitz per Vanity Fair. Ha insistito tanto nella sua arringa che ho dovuto fargli una foto pressoché identica. Alla fine ha avuto ragione lui.
Cucina divinamente, ed è una fortuna essere invitati a pranzo da lui. Ancor più fortunati si è, se si riesce ad assaggiare quel che lascia nei piatti di portata. Succede raramente, ma succede!
A un anno dalla mia rinascita, lui è l’unica faccia che c’era fin dall’inizio. Dagli albori. Non ha mai mancato una presa, beccandosi spesso il mio turpiloquio esasperato, le mie crisi di coscienza, le mie enfasi verbali, i miei pruriti sessuali, da dovermi accompagnare al baccaglio anche alle tre di notte.
Quante volte, non lo so!
Anche quando viaggia, non si dimentica mai di accertarsi di come stia.
- Cessa, come stai?- è la sua classica entrata in scena.
Dolce, dolcissima mia Paquita. Sei come la Panda… se non ci fossi bisognerebbe inventarti.
Piuttosto, ci staresti mai seduto in una Panda?
Errata corrige: Sei come due, tre Pande….
… suona meglio, no?

Grazie per essere la mia cura. Ogni volta. A te potrei promettere ogni mio per sempre!
Paura eh?

Tuesday, November 07, 2006

L'amore che.

L’amore delle cabine telefoniche sotto la pioggia, da cercare per dire solo buonanotte. L’amore alla domenica mattina, quando è la luce a svegliare chi dorme. L’amore del primo momento, quando ogni cosa appare ovattata. L’amore dell’ultimo momento, quando ogni cosa è persa, e assume il giusto valore nell’assenza. L’amore da guardare il mare e ricordare. L’amore del buio delle mani sotto le magliette calde. L’amore di chi si guarda anche durante un film. L’amore del ti voglio qua, ne ho bisogno. L’amore del ci vediamo domani, se ti va. O quell’amore degli abbracci d’improvviso. Le scie del non potrò dimenticarti, e anche le rincorse del non posso lasciarti! L’amore di chi non lo voleva, e invece. L’amore del finalmente ti ho trovato. L’amore del dimmi solo sì. L’amore del ti prendo e ti porto via, lontano. L’amore del sto arrivando, scusa il ritardo. L’amore del andiamo a cena fuori io e te. L’amore di chi si sposa in un altro paese. Quell’amore di chi si comprende anche solo per il rumore del respiro. L’amore del mi manchi da morire. L’amore del ti chiamo appena finisco, del dormi da me stanotte, dei gelati di piazza Santo Stefano alla sera mentre ti tengo la mano di nascosto. L’amore di chi suda occhi negli occhi. L’amore di chi resta e vede l’altro andar via. L’amore delle piccole cose che di te trovo in giro. L’amore del non so come sia potuto succedere. L’amore del non ci credo, non dire stronzate. L’amore di chi chiede scusa. L’amore di chi perdona. L’amore di chi non ci riesce. L’amore di chi piange perché è troppo. E di chi piange perché non è abbastanza comunque. L’amore di chi non è pronto per questo. L’amore di chi dubita, e anche quello di chi è davvero sicuro, sorprendentemente. L’amore che si sente dentro, e quello che si disperde. L’amore di chi lo conserva, attendendo. L’amore di chi lo confida senza guardare negli occhi. L’amore di chi lo dichiara, e quello di chi non lo farà mai. L’amore del fanculo ti amo, urlato sopra l’epilogo. L’amore, che descrivo, nei riflessi di ogni dritto e rovescio. L’amore di cui scrivo. L’amore opaco che la mia vita non ha ancora, e non più. L’amore che mi manca, dinnanzi all’amore di chi probabilmente legge queste righe.

L’amore di chi se la sente.
Fuggi Romeo, il tempo è tiranno, non è di usignolo, ma d’allodola il canto.

Monday, November 06, 2006

L'insostenibile leggerezza di essere sagittario

Che già essere nati a dicembre, così vicino a natale è un bidone. Sin da piccolo mi sono sentito dire la stessa cosa, tutti i sacrosantissimi anni che piovono in terra:
- Ma preferisci due regalini piccoli o un solo regalone grande?
Morale della favola : io ho ricevuto sempre meno regali di chiunque altro!
Ma non tergiversiamo… che la questione urge.

- Di che segno sei?
- Ehm, sagittario..
- Oddio, che cosa orribile / - Noooo. Mi dispiace! / - Beh, che sfiga!/ etc etc etc

Ogni volta sempre la stessa storia; come se essere gemelli o ariete o cancro fosse una prova incontrovertibile di essere salvi, di avere un destino più roseo. Noi sagittario siamo confinati alla pestilenza della sorte, finché morte non ci colga. Io, ogni capodanno aspetto il riscatto. Quando le copertine dei giornali da parrucchiera ( la mia ragione di vita, intendiamoci!) promettono nei titoli un dossier all’interno, in cui si rivelino i segni fortunati del nuovo anno, IO avidamente mi tuffo alla ricerca di una possibile promessa. E mai che ci si dica: “sagittari state in una botte-de-fero”… anzi! Gli esperti iniziano a parlarci di trigoni, di cuspidi, di decadi, di Saturni che insomma mannaggia a loro, di Veneri che forse magari in nove mesi qualcosa ce la regaleranno pure… così ogni capodanno, richiudo la rivista dal dossier di vane speranze, e medito di lanciarmi tra le fiamme del camino; poi desisto sempre per fortuna, nonostante mia madre a quel punto, ogni anno con la precisione di un orologio svizzero, mi domandi: “ allora ti è piaciuto il Regalone di questo complenatale?”… e allora vaffanculo!
Questa settimana ho navigato nell’incertezza esistenziale. Non direi che è una novità per me, anzi! C’è chi ha le scarpe da trekking per la domenica, e c’è chi (io e pochi altri) ha le scarpette senza suola per camminare sui vetri delle proprie sventure. Così, obnubilato da troppi foschi quesiti, ho deciso di ripiegare nella sola risorsa rimastami. L’oroscopo. Ma nessuna testata, nessuna pubblicazione per la settimana che verrà, mi ha soddisfatto. Così, stavolta, suggerisco un golpe in piena regola… stavolta il mio oroscopo me lo scrivo da solo! Tiè!

Sagittario (22 novembre – 21 dicembre):
Amici del sagittario siete in una botte-de-fero! Lasciate perdere chi vi rema contro. Le stelle parlano chiaro. Questa settimana la vostra vita riprenderà quota, lasciando gli altri segni dello zodiaco a farsi delle gran pugnette per l’invidia! Per chi è single, l’amore della vita è dietro l’angolo ad attendevi; per chi è in coppia si prospettano giorni di grandi progetti, per chi è invece in trigono (significherà esattamente questo? Bah!) avrete le risposte a ogni vostra domanda! A ogni vostra domanda! E seppiatelo già: quest’anno avrete due regaloni… in barba al passato. Rallegratevi!


Quindi: stretta e la foglia, larga la via , voi dite la vostra ( se necessario) che io ho detto la mia!

Sunday, November 05, 2006

Una lettera per caso

Quando la mia vita non basta, mi immergo in quella altrui; perfino nelle pieghe dell'amore che sogno, e che un po' mi vive dentro. Una lettera per caso, spinta dalla curiosità per renderla vera, dall'immaginazione ... croce e delizia di questa mia testa.


Amore,
non ho ancora ritrovato il fiato per parlarti. L’ho perso con te, trascinato sotto la terra nuda, che ti tiene stretto. Screpolerei le mani, sbuccerei la pelle del mondo per riaverti qua. È mattina, e neppure nella tenerezza del giorno che nasce appena, io riesco a non pensare a te. Questa, di mattina, è perfino più ingrata. Ti amo dal principio della mia vita stessa, quasi; e non riesco a immaginarla diversa da così: legata a doppio nodo alla tua, che si è spenta tre mesi fa ormai. Mi vergogno a confessare agli amici che ogni cosa è rimasta immobile, come sopita insieme a te. I tuoi fogli sullo scaffale dell’ingresso, gli asciugamani in bagno, i promemoria sul frigo. Sono ghiaccio sul quale non fiorisce nulla, se non la polvere. Polvere come colla per i ricordi, stesi lì a farmi compagnia. Perché ogni piatto che rimane pulito, ogni suola di scarpa che il tuo passo ormai manca, ogni movimento risparmiato dalla tua assenza, taglia i miei occhi di sale soffiato, come ferite.
Mi hai detto ti amo, mollando la presa del mio sguardo, mentre perdevi il futuro su un letto d’ospedale. Questo a me basta. Ho reclinato la testa, in quel primo minuto di abbandono, sicuro che la mia memoria ritornerà lì ogni giorno, qualunque cosa capiti negli anni che attendo.
La tua prima occhiata, all’università. Non avevi le ultime monete per il tuo caffè al bar. Io aspettavo, spazientito. Mi divertì però, vederti in difficoltà. Ti prestai altre cento lire. Non le ho mai riavute indietro. Anni fa, in una memoria che perde i contorni, come fosse una bambina dall’occhio pigro, la mia vita ha incontrato la tua. Non avresti mai pensato che da allora la vita sarebbe stata solo una. Parlo degli ultimi vent’anni, e del tesoro che conserviamo. La fatica di quest’ultimo brandello di noi, verde corsia, intubati entrambi. Tu alla gola, dal di fuori, io al cuore nel vederti così.
Le fughe al mare d’inverno, da ragazzi. La centododici di tua madre, e la paura di tornare a casa tardi. Il gelato sbrodolato fin sul collo. E fare l’amore come due ladri, come meschini relegati all’ultima ombra del mondo. La pena per le parole taciute, e le mani ferme nei cinema troppo affollati. Ma sai che rifarei ogni cosa, dal principio, se potessimo scavalcare le malattie della sorte. Solo questo vorrei fosse diverso. I nostri primi anni; a loro sono affezionato. Inizio a essere vecchio, e commemoro le primavere del cuore. Ti sembrerei patetico, riuscissi a leggere queste mie righe.
Ma sono proprio quelli i momenti che rivivrei, per primi. Ti sembra curioso? Non gli agi, le comodità dei due professionisti che siamo diventati, no! Ma le bugie raccontate al mondo, e i giorni a sperimentare tentativi per nuove invisibilità.
Ricordo il primo bacio. La nostra prima buonanotte a fior di labbra, soffiata breve. Io a te e tu a me. Quel coraggio non tornerà più. La febbrile incoscienza di quel offrirci in pasto.
Ogni cosa è stata nostra davvero. Abbiamo posseduto tutto, perché attenti al pericolo di perderlo.
Non pensavo ti ammalassi. Imprevisto che ci ha raggiunto cogliendoci impreparati. E, accettato il mostro che ti era dentro, abbiamo lottato contro di lui, come due belve. Finché tu non mi hai detto: basta, non serve ormai. Eri pronto più di me, e prima di me. E la pelle era la tua. Quella stessa pelle che sembra lasci ancora orme sul letto, e che invisibile lo è diventata davvero.
Dimmi tu che ne devo fare di tutti i tuoi vestiti, dei tuoi dischi che ho sempre detestato, di quella insopportabile radio del bagno che gracchia. Potessi rispondermi, diresti di buttare via tutto, come mi hai già detto poco tempo prima di perdere la voce, attendendo la fine. Ma ho scoperto che non posso. Ti racconto una cosa: ieri sera ho preso dal negozio sotto casa delle scatole di cartone. Sono servite a trasportare dei pelati fin qua. Adesso che dovrei farci? Riempirle per un secondo viaggio, non più di polpa di pomodoro ma di te; del tuo passaggio oltre queste mura, fin dentro la mia vita. Il nostro passato in un cartone per alimenti? Non posso, non chiedermelo.
La cosa giusta sarebbe che ci fossi tu, qui, a far rivivere i tuoi oggetti, a riaprire i tuoi libri, a cercare le custodie dei tuoi dischi. Ricordo te ne mancava sempre una all’appello. Così costringevi me ad aiutarti a cercarla.
Amore, secondo te è normale che adesso abbia paura? Perché è così che mi sento. Perso.
Eri come una verità su di me, sugli altri, sul mondo. Una ragione per incuriosirmi. E una volta che le mie ciglia si saranno asciugate, avrò difficoltà a trovare nuove domande. Ho così tanti ricordi da salvare, da mettere a riparo. Schiverò la demenza, nelle lontane terre del disincanto della vecchiaia. Non dimenticherò niente. Avrò te come punto. Rinascere senza un arto è una fatica che mi sembra inutile sopportare. La volontà è sopravvivere al tuo silenzio. Eppure amore mio, da quando sono bambino, conosco una storia che ti ho raccontato spesso. Sembra che gli angeli sentano il rumore di un desiderio espresso sottovoce. Se un angelo che passa di qua, decidesse di dire “amen”, il desiderio si avvererà.
Tu forse potresti raggiungermi, in silenzio, senza fare rumore, e provare a regalarmi tutti gli amen di cui sento di avere bisogno.
Forse lo farai davvero. Io potrei confondere l’animo che ho, e mostrarti una serenità che ti ho promesso. Non mi hai creduto allora, ma tenterei di ingannarti, per un attimo.
Sentirti aprire la porta, gettare la borsa sul pavimento e raggiungermi nello studio. Sentirmi dire che ho voglia di una vacanza. Penso alle cose stupide di cui abbiamo discusso, agli ingorghi della passione che avremmo voluto ci divorasse sempre. Invece abbiamo imparato l’amore, e le promesse che gli innamorati infrangono. Il nostro amore è stato un segreto fra noi; taciuto da ogni voce ma posato sui palmi delle nostre mani.
Il nostro amore era l’unica cosa. L’unica cosa.
Ho pensato per anni che fosse inutile dire che sarebbe stato per sempre. Ora, invece, è come se fosse la sola verità a cui sono capace di affidarmi.
Quindi stringo gli occhi, e tiro fuori quel poco di voce che riesco.
La mia cura su ogni cosa, e la tua cura su di me.
Dì solo amen, amore, presto.

Per sempre.
Carlo

Thursday, November 02, 2006

my sister

Non mi somiglia. Non siamo cresciuti insieme. Non ha nulla a che fare con la mia famiglia. Non lo conosco da più di sei mesi. Questo, per chiunque altro dotato di normale perspicacia, lo renderebbe un conoscente; o appena un amico, uno di quelli che guardi ancora con una certa diffidenza.
Eppure.
Quando vai via di casa presto, e ti rendi conto che è passato il tempo in cui tu eri solo un figlio desideroso di cure e premure, il significato di famiglia cambia. Scopri che sei tu a dover rassicurare una madre, a coinvolgere nel tuo mondo bislacco un padre distante. Che i tuoi fratelli, quelli di sangue per davvero, hanno la loro vita e le loro urgenze. Così, nella tua casa alla fine del loro mondo, sei costretto a mordere l’affetto altrove, ed è lì che altri fratelli e sorelle si siederanno alla tua tavola.
Ed è per questo che Matteo oggi è uno “di famiglia”. Pur non sapendo quali vergognosi pantaloni portasse al liceo, quanto imbarazzante sia stato il suo bulbo pilifero quando poteva ancora vantarne uno, e quante paure abbia scavalcato nei suoi anni di attese e desideri. Oggi di fonte a me c’è solo quello che mi riguarda…. Una sorella. My sister. Così, quando soffro per qualche stupida ragione, ho il suo sacco di parole e abbracci da slacciare.
La mia sister ascolta tanta bella musica; mia sister ha la fissa di andare in palestra, e fa un lavoro strano, che per tagliare corto potrei dirvi che ha a che fare con la pubblicità… la mia sister ha gli occhi di ghiaccio e ha un accento veneto che gli correggerei a suon di sganassoni… ma tant’è!
Mia sorella è proprio una forza, è bella e qualche volta fa la civetta (potrei dire scaldacazzi, ma so che si offende). Beve la sambuca illudendosi che la sua vita migliori, come tutte le alcoliste. Ma di anonimo lui non ha nulla… la mia sister è speciale.
La mia sister c’è sempre… e quando lo chiamo mi dice che non lo disturbo...mai. So bene che mente, ma è troppo carino per dire il contrario.
Adesso si è anche mezzo innamorato.. e io dico che sono contento per lui. Certo, per me che annego nella filologia del definire il mio rapporto con il “cagone”, non sarà facile quando a pranzo, uno di questi giorni, la mia sister mi mostrerà l’anulare e mi dirà: mi sono fidanzato! Io farò finta di commuovermi, quando in realtà piangerò per le mie umane disgrazie. E su quell’altare ci salirò anche io, al suo fianco per sorreggerlo nel momento del sì, quando sarà. Gli ho già spiegato che il color lavanda non mi pare indicato per agghindare noi damigelle. Ma considerando il piccolo dettaglio che la mia sister è pure un filo daltonica, penso che sono cazzi amarissimi… perché magari non sarò color lavanda… ma neppure un bell’arancione cangiante mi farebbe sentire a mio agio, ai piedi della croce. Sarebbe come gridare la mia dubbia moralità alle porte del regno dei cieli.

Matteo,
You are my sister And I love you
May all of your dreams come true